Leonor Fini: ribelle, visionaria e anticonformista

by Claudia

A lei Milano dedica un’importante retrospettiva per scoprire l’attualità della sua arte

Una vita decisamente intensa e fuori dagli schemi, quella di Leonor Fini: donna e artista eccentrica, controcorrente, indipendente e ammaliatrice. Leggendo la sua biografia si rimane impressionati dalle esperienze che ha vissuto, dai viaggi che ha intrapreso e soprattutto dalle numerosissime amicizie e dai tanti legami amorosi che ha saputo stringere grazie alla sua intrigante personalità.

Max Ernst l’ha definita la «furia italiana», di «scandalosa eleganza, capriccio e passione». In pochi, difatti, sono riusciti a resistere al fascino innegabile, reso ancor più seducente da un temperamento turbolento, di questa femme fatale italo-argentina che è stata non solo pittrice, ma anche scenografa, costumista, scrittrice, designer e illustratrice, una delle prime donne a rompere la gerarchia tra le diverse arti.

Fin dalla tenera età Leonor Fini è stata protagonista di vicende peculiari che hanno inesorabilmente segnato la sua esistenza: contesa dai genitori separati, il padre, argentino, tenta più volte di rapirla, mentre la madre, triestina di origini tedesche (con cui l’artista ha sempre avuto un rapporto quasi morboso), cerca di nasconderla ricorrendo a continui travestimenti.

L’ambiente in cui la piccola «Lolò» cresce è quello colto e borghese della Trieste degli anni Venti del Novecento, frequentato da Umberto Saba, James Joyce e Italo Svevo. Poi c’è l’approdo a Milano, dove Fini incontra Achille Funi, di cui diventa la compagna, Carlo Carrà, Mario Sironi e Giorgio de Chirico. Nel 1931 è nella frizzante Parigi: qui, tra feste e ricevimenti, viene presentata dal fotografo Henri Cartier-Bresson al drammaturgo francese André Pieyre de Mandiargues, a cui si lega sentimentalmente, e conosce Max Ernst, che la introduce nell’ambiente della pittura e della letteratura surrealista facendola entrare in contatto con André Breton, Salvador Dalí e Paul Éluard.

Proprio con Max Ernst l’artista si reca a New York nel 1936 inanellando nuove amicizie ed esperienze lavorative. Attraverso Christian Dior frequenta Elsa Schiaparelli per la quale crea l’iconico flacone a forma di busto femminile per il profumo Shocking, ispirato alla silhouette dell’attrice Mae West. A Montecarlo, nel 1942, durante una prima teatrale, incontra il console Stanislao Lepri che si innamora perdutamente di lei tanto da abbandonare la politica e dedicarsi all’arte. Quando poi, nel 1952, Fini conosce il letterato polacco Konstanty Jeleński, inizia con lui e con Lepri una lunga convivenza a tre che sciocca i moralisti e sfida le consuetudini sociali.

Anche a Roma, dove si aggiudica il ruolo di ritrattista ufficiale del bel mondo capitolino, l’artista lascia il segno con la sua verve anticonvenzionale. Nella Città Eterna lavora per il teatro e per il cinema e frequenta Luchino Visconti, Federico Fellini, Elsa Morante (che di lei dice: «Unisce in sé due grazie: l’infanzia e la maestà»), Alberto Moravia e Fabrizio Clerici. Dipinge Alida Valli a seno scoperto e nelle dimore che affitta per trascorrere le estati, tra cui un’antica torre sul lungomare di Anzio, non manca di radunare i suoi tanti amici, a cominciare da Brigitte Bardot.

In ogni città in cui soggiorna, Fini è protagonista della scena mondana partecipando a feste in cui si presenta sempre mascherata con esuberanti abiti ideati da lei stessa, chissà se come ripercussione del trauma vissuto da piccola o se per il semplice gusto della provocazione. Memorabile, a Venezia, il ballo organizzato dall’eccentrico multimilionario Carlos de Beistegui, in cui l’artista sfoggia un’incredibile mise da angelo nero.

Come la sua vita anche la sua arte rispecchia un’indole vulcanica e sfaccettata, uno spirito camaleontico e disinvolto, aperto alla sperimentazione e alla più totale libertà espressiva.

Che le opere di Fini vengano ricondotte al Surrealismo è sicuramente corretto, poiché da esso l’artista si è lasciata suggestionare molto, non solo grazie alla conoscenza diretta delle figure più importanti che hanno militato in questo movimento, ma anche alla lettura dei testi di Freud, che l’hanno spinta a esplorare la dimensione dell’inconscio, dell’irrazionalità e del sogno. Fini non si accontenta però di raccogliere stimoli solo dall’esperienza surrealista (motivo per cui non vi ha mai aderito ufficialmente) e sviluppa la propria indagine in più direzioni, sorretta sempre dalla particolarità della sua visione e dall’indipendenza dalle principali tendenze artistiche dell’epoca.

A rendere distintivo il suo linguaggio è la rivisitazione dei caratteri propri del Surrealismo in chiave classicista, frutto di una formazione tutta italiana e dello studio del Rinascimento. Le citazioni stilistiche di maestri del Quattrocento e del Cinquecento (Piero della Francesca, Tiziano e Michelangelo, solo per indicarne alcuni) si accompagnano a una perizia esecutiva affine alla pittura fiamminga del XV secolo e al Manierismo che dà vita a composizioni dalla grande vivacità plastica e coloristica.

La città di Milano, dopo quasi un secolo dalla prima mostra personale d’esordio che l’artista aveva tenuto nel capoluogo meneghino alla Galleria Barbaroux, dedica a Leonor Fini un’ampia retrospettiva nelle sale di Palazzo Reale che ripercorre le tappe principali del suo poliedrico percorso (attraverso dipinti, disegni, tante fotografie, splendidi costumi e libri), mettendo in evidenza il valore della sua ricerca, non ancora debitamente riconosciuto, e l’originalità degli esiti raggiunti.

Sebbene ancora oggi non sia così nota al grande pubblico come dovrebbe, Fini ha attraversato da protagonista la scena culturale europea dagli anni Trenta del Novecento fino alla fine del secolo (muore a Parigi nel 1996) e con le sue opere ha affrontato, con largo anticipo, molte tematiche sociali di grande attualità, prime fra tutte quelle legate all’identità di genere e alle tipologie di famiglia non tradizionali.

Come emerge dal nutrito nucleo di dipinti esposto in mostra (in cui, va detto, si trova talvolta qualche tela che non è all’altezza delle altre e che tradisce una certa discontinuità stilistica), l’universo pittorico dell’artista è popolato da figure enigmatiche collocate in ambientazioni oniriche e tocca temi quali la sessualità, la morte, il macabro, le pratiche rituali e la metamorfosi: ne sono un esempio Le Bout du Monde del 1948, La Cérémonie del 1960 e Rasch, Rasch, Rasch, meine Puppen Warten! del 1975.

Al centro dell’immaginario ermetico e fortemente simbolico di Fini c’è sempre la donna, ora moderna sfinge, ora dea o sacerdotessa, ora creatura sospesa tra sembianze umane e feline («Io sono la figlia di una donna e di un gatto», diceva l’artista, che era solita uscire indossando una maschera da felino e che nella sua abitazione parigina era circondata da decine di gatti). Attorno a questi personaggi femminili potenti ci sono esseri ambigui e inquietanti, avvolti in atmosfere misteriose e voluttuose. Emblematica è l’opera Femme assise sur un homme nu, datata 1942, in cui una donna dalla posa fiera e accattivante è seduta su un uomo nudo addormentato: è il manifesto di un’artista irrequieta e orgogliosamente autonoma, capace di stravolgere, nella pittura così come nella vita reale, le convenzioni sociali e le regole del perbenismo.

Tutta l’esistenza di Leonor Fini, in fondo, è stata una grande performance in cui l’artista ha fatto di sé stessa uno strumento per veicolare idee affrancate da schemi precostituiti e guidate solo dalla libertà di esprimere pienamente la propria identità. «Sono una pittrice», diceva Fini, «Quando mi chiedono come faccia, rispondo: “Io sono”».​