Perseguitati anche all’estero

Gulnar mi siede davanti, un fazzoletto in mano per asciugarsi le lacrime. La donna ha 55 anni e proviene dallo Xinjiang, una regione autonoma della Repubblica popolare cinese. «Da otto anni non ho più alcun contatto diretto con la mia famiglia», racconta la donna uigura. «Mia madre è anziana. Vive da sola e io sono molto preoccupata. Mi manca così tanto». Nell’immagine del suo profilo WhatsApp la si vede mentre le dà un bacio sulla guancia. «Se chiamo i miei familiari, ho paura che succeda loro qualcosa, che vengano imprigionati. È ciò che spesso succede quando qualcuno riceve una telefonata dall’estero», dice Gulnar. Attualmente la madre le fa sapere che sta bene tramite conoscenti, che le inviano un messaggio: «Tua madre è ancora viva». Della morte del padre, avvenuta sei anni fa, è venuta a sapere solo un mese dopo il decesso. Con il marito Abduxukur vive da quasi 25 anni in un villaggio nel Canton Berna. In Svizzera si è rifatta una vita. Ha tre figli maggiorenni, una casa con il giardino e un grande desiderio: riabbracciare, un giorno, i propri cari. Un desiderio che la intristisce perché sa che probabilmente resterà inesaudito. «Nel 2006 sono tornata per la seconda volta nella mia città natale», continua Gulnar. «Poco dopo il mio arrivo, la polizia mi ha contattata e mi ha portata in una stanza d’albergo, dove mi ha sottoposto a un interrogatorio durato quattro ore. I funzionari mi hanno fatto mille domande: quanto guadagna tuo marito? Chi frequenti in Svizzera? Che giornale leggi?».

Nel 1996 il marito Abduxukur lascia Ürümqi, la capitale della regione autonoma Xinjiang Uygur, per proseguire gli studi al Centro internazionale di fisica teorica nei pressi di Trieste. Un anno più tardi si iscrive all’Università di Basilea, dove ottiene il dottorato in scienze dei materiali. «La mia idea era formarmi all’estero e poi tornare a insegnare nell’università della mia città», racconta Abduxukur. «Nel 1999 ho incontrato i miei professori a Ürümqi e ho parlato loro dei miei piani. Loro mi hanno sconsigliato di tornare e di aiutare la mia gente dall’estero». Da qui la sua decisione di chiedere alla moglie di raggiungerlo in Svizzera con il primo figlio. Era il 2000. Da allora la coppia torna diverse volte nello Xinjiang. L’ultima visita risale al 2014, con i figli. Un anno più tardi, Gulnar viaggia da sola. Poco fuori dalla città di Kuqa vede un cosiddetto «campo di rieducazione», eretto dalle autorità cinesi. A ogni incrocio osserva poliziotti armati e ovunque nota videocamere e microfoni, anche nei taxi. Deve continuamente mostrare il suo passaporto; per fortuna quello svizzero, ottenuto nel 2011, che la rassicura parzialmente. «In Svizzera abbiamo imparato cosa significa la democrazia», sottolinea Abduxukur. «Non potevamo più tornare indietro. Non avevamo mai pensato di stabilirci definitivamente all’estero».

In Cina, negli ultimi decenni, si è verificato un netto peggioramento della situazione dei diritti umani, soprattutto per le minoranze etniche come quella uigura nello Xinjiang, regione autonoma situata nel nord-ovest del Paese, al crocevia tra Asia centrale e Asia orientale. Dopo l’avvio del progetto della Nuova via della seta la situazione di questo gruppo etnico turcofono e musulmano è ulteriormente peggiorata. Lo Xinjiang rappresenta infatti un importante corridoio economico verso Occidente e, per garantire l’approvvigionamento di materie prime necessarie per sostenere la crescita della Cina, Pechino ha deciso di rafforzare il controllo sulla regione, nonché sui ricchi giacimenti di gas e petrolio. Secondo un recente rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani, la Cina attua da anni una politica sistematica di internamento, lavoro forzato e trasferimenti coatti nei confronti degli uiguri e di altre minoranze musulmane nello Xinjiang. Numerose testimonianze e rapporti di organizzazioni per i diritti umani parlano di milioni di persone detenute senza processo in «campi di rieducazione», dove subiscono indottrinamento politico, torture, trattamenti inumani e degradanti, violenze sessuali. Inoltre sono documentate politiche di controllo delle nascite, come sterilizzazioni e aborti obbligatori, mirate a ridurre la crescita demografica degli uiguri.

«Mio fratello è stato in prigione», dice Gulnar. «Anche mio fratello – continua Abduxukur – è stato rinchiuso in un campo per dieci anni, senza aver commesso alcun reato». Oltre alla repressione e alla sorveglianza in Cina, le autorità cinesi controllano la comunità uigura all’estero, anche quella in Svizzera, come ha evidenziato un rapporto del Consiglio federale, pubblicato di recente e commissionato all’Istituto europeo dell’Università di Basilea. Lo studio indica che tale repressione transnazionale della diaspora uigura si esprime anche sotto forma di minacce di violenza nei confronti dei familiari in Cina. «Ho ricevuto spesso chiamate da numeri esteri da persone sconosciute», racconta Abduxukur. «Mi hanno chiesto di fornire nomi, numeri di telefono e indirizzi di uiguri in Svizzera. Visto che non ero disposto ad assecondare la loro richiesta, mi hanno minacciato, affermando che avrei dovuto assumermi la responsabilità del mio rifiuto, senza indicare con precisione di quali conseguenze si trattasse». Secondo il rapporto, la strategia cinese mira anche a creare dissensi all’interno della diaspora uigura, con l’obiettivo di indebolirla. «Ci sono alcuni uiguri che chiamano i loro familiari a casa. Ciò insospettisce gli altri membri della diaspora. Come mai godono di questo privilegio? Sono forse spie?», si chiede Gulnar. Cinque anni fa la comunità uigura in Svizzera, che conta all’incirca 200 persone, si è divisa: da una parte chi vuole continuare a farsi sentire attraverso le proteste di piazza; dall’altra, chi intende puntare sulla sensibilizzazione attraverso i canali social, i mass media tradizionali o le organizzazioni non governative. A presiedere la nuova associazione è Abduxukur, al quale chiediamo se non abbia paura. «Certo! Mio fratello e quello di Gulnar sono stati in prigione. Non abbiamo più alcun contatto con le nostre famiglie. Se c’è una scala per misurare il dolore, credo che ne abbiamo già raggiunto l’apice. A questo punto non abbiamo quasi più nulla da perdere». Gulnar aggiunge: «Ieri ci siamo detti: se ci lasciamo vincere dalla paura, la repressione diventerà sempre più forte. Se non facciamo nulla, la situazione non migliorerà».

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