Art Déco, un mondo intriso di bellezza

«È la cosa peggiore a cui abbia mai assistito». Con queste parole, il 6 maggio del 1937 il giornalista Herbert Morrison concludeva la drammatica e concitata radiocronaca che era stato costretto a improvvisare quando, come tutto il pubblico accorso per assistere all’atterraggio del dirigibile tedesco Hindenburg, lo aveva visto improvvisamente prendere fuoco nel cielo sopra Lakehurst, nel New Jersey. La tragedia dello Zeppelin, le cui immagini nei giorni successivi furono trasmesse dai cinegiornali di tutto il mondo, decretò la fine dei viaggi commerciali di quelli che rimangono ancora oggi gli oggetti volanti più grandi mai costruiti dall’uomo, ma soprattutto sancì simbolicamente la fine di un’epoca.

Già negli anni precedenti, del resto, l’euforia spensierata e disinibita dei «ruggenti» anni Venti aveva lasciato il campo al clima cupo prodotto dalla terribile crisi finanziaria del 1929 e dall’avvento al potere di Hitler, al punto che cominciava ormai a essere chiaro a tutti che una nuova guerra, dopo quella che aveva decimato una generazione di giovani maschi europei nei fossati delle trincee tra il 1914 e il 1918, era alle porte.

Lo storico filmato di quell’incidente che in pochissimi secondi distrusse l’enorme fusoliera argentea dello Zeppelin, a mio avviso sarebbe stato perfetto per chiudere la mostra dedicata all’Art Déco in corso a Palazzo Reale a Milano, perché avrebbe fatto da drammatico contrappunto all’atmosfera lussuosa, gaudente e sensuale che domina il resto del percorso espositivo, ricollegandosi al contempo al suo incipit, visto che nella prima sala gli spettatori sono accolti dalla ricostruzione in scala di un dirigibile sul quale sono proiettati frammenti di filmati dell’epoca che celebrano i fasti della vita moderna.

Il finale per il quale ha optato il curatore Vittorio Terraroli mira invece a sottolineare la sopravvivenza dello stile Déco in America grazie alla mediazione hollywoodiana, mostrandoci le spettacolari coreografie acquatiche ideate da Busby Berkeley per il musical Footlight Parade del 1933, alle quali vengono affiancate le geometrie raffinate, essenziali e modernissime di una serie di oggetti di ceramica smaltati di rosso di Giò Ponti, Giovanni Gariboldi e Guido Andlovitz che segnano il passaggio allo stile Novecento.

In generale, tuttavia, prescindendo dalla scelta del finale, va detto che la decisione di includere nell’allestimento una serie filmati dell’epoca proiettandoli su scenografiche superfici sagomate secondo stilemi déco risulta essere particolarmente felice e riesce a dare conto efficacemente della vitalità di un’epoca e dello spirito di un mondo, quella della borghesia ricca e disimpegnata degli anni Venti che dell’Art Déco è stata la principale fruitrice. Consacrato ufficialmente nel 1925 in occasione dell’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes, lo stile Déco si impone in Europa nel campo delle arti applicate tra la fine della Prima guerra mondiale e i primi anni Trenta, per poi migrare negli Stati Uniti dove continuerà ad aver larga diffusione fin quasi allo scoppio della Seconda guerra mondiale soprattutto in ambito architettonico e cinematografico.

È, quello dell’Art Déco, uno stile eclettico e variegato, che mescola tradizione e modernità e il cui linguaggio si rifà alle geometrie lineari dello Jugendstil e dall’Art Nouveau, con particolare riferimento alle secessioni emerse a inizio secolo in ambito tedesco (Vienna, Monaco, Berlino), sulle quali si innestano elementi derivati da movimenti quali il Cubismo, il Futurismo e il Fauvismo. L’aspirazione alla modernità, però, nell’ambito dell’Art Déco non ha mai i tratti radicali e provocatori tipici delle avanguardie, ma è sempre mitigata dalla piacevolezza, dalla preziosità, dalla ricercatezza e da un’eleganza spinta fino ai limiti dello snobismo.

Non si tratta di rompere con il passato, con la tradizione, ma semplicemente di rinnovarne le istanze adottando forme edulcorate e addomesticate di modernità. Non a caso, accanto all’esotismo, si assiste a un sincretistico recupero di elementi decorativi disparati che vanno dalle antichità assiro-babilonesi al Neoclassicismo, dal Manierismo al Rococò. In questo modo l’Art Déco finisce però per mancare completamente l’appuntamento con i nodi essenziali della modernità che in quello stesso giro d’anni vengono affrontati con ben altro rigore e spirito rivoluzionario nelle aule del Bauhaus a Weimar, dove l’estetica razionalista e il funzionalismo si uniscono alle istanze sociali nel tentativo di affrontare le grandi sfide poste dal design industriale.

L’opposizione tra questi due modi di affrontare la modernità è perfettamente sintetizzata da Margherita Sarfatti, nel testo che introduce la partecipazione italiana all’esposizione parigina, in cui scrive: «Di fronte al razionalismo iconoclasta della giovane scuola, la quale ci condanna a vivere attorniati da inesorabili espressioni di utilità senza alcuna fioritura ornativa, invochiamo il dono di un po’ di bellezza per addolcire, per arricchire, per nobilitare l’aspra vita quotidiana con il sorriso del divino, del solo indispensabile superfluo». L’ornamento, secondo la Sarfatti, non solo non è delitto, come aveva sostenuto Loos, ma andrebbe addirittura posto al centro di una vita che si voglia pienamente realizzata.

Non è necessario sottolineare che questo programma aveva valore unicamente per i membri di quel ceto privilegiato che il superfluo poteva permetterselo e che dopo gli orrori della Prima guerra mondiale non aspirava ad altro che a godersi la vita, immergendosi in un mondo dorato, languido e sensuale e soprattutto privo di conflitti e di asperità. Un mondo intriso di bellezza e ricchezza che attraverso il cinema riuscì però a convogliare su di sé anche il desiderio e l’identificazione delle masse popolari.

Avviluppati in questo mondo di sogno, molti finirono però per non sentire il fragore sempre più forte dei passi cadenzati che stavano spingendo l’Europa verso una catastrofe bellica che di lì a poco, come la fiammata improvvisa che aveva avvolto lo Zeppelin, l’avrebbe travolta e ridotta in macerie.

Quella dell’Art Déco non è però solo la storia di un fenomeno del gusto che ha caratterizzato la società occidentale tra le due guerre, ma è anche la storia delle invenzioni, spesso mirabili, dei singoli autori e delle grandi qualità artigianali delle manifatture che hanno operato nel suo alveo. Da questo punto di vista la mostra documenta in maniera ampia soprattutto il contesto italiano, nel quale figurano, tra le altre, le opere di Vittorio Zecchin, Adolfo Wildt, Carlo Scarpa, Anselmo Bucci, Francesco Nonni e Galileo Chini, ma in cui a farla da padrone è ovviamente Giò Ponti con la straordinaria produzione di ceramiche per la Richard Ginori che caratterizza la prima fase della sua lunghissima e prolifica attività di designer.

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