Dazi americani, torniamo coi piedi per terra

Il mondo sembra scoprire il protezionismo ora, come se lo avesse inventato Donald Trump. Molti decretano che nel «Liberation Day», quel 2 aprile in cui il presidente degli Usa ha annunciato raffiche di super-dazi (vedi foto), «la globalizzazione sia finita». Che la svolta sia reale, non c’è dubbio. La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha parlato di uno «shock per l’economia globale». Perfino un Paese come la Svizzera, di solito al riparo dagli scontri tra schieramenti geopolitici, si è vista penalizzare con dazi del 31% le sue esportazioni verso gli Stati Uniti. Un amico di Trump, Benjamin Netanyahu, ha cercato di abbracciare la logica della «reciprocità» eliminando tutti i dazi sul made in Usa; in cambio ha ottenuto sì uno sconto, ma i dazi americani sulle esportazioni israeliane sono comunque stati fissati al 17%. Un altro Paese che si considera filoamericano, il Vietnam, è stato fra i più castigati: Trump vuole impedire che la Cina lo utilizzi, come fa con il Messico, per farvi transitare le proprie esportazioni cambiando etichetta di provenienza.

A giudicare dalle reazioni ufficiali tutti sembrano sorpresi e costernati, tutti si dicono indignati, tutti promettono di difendersi e in certi casi di vendicarsi con rappresaglie adeguate. In mezzo a tanto frastuono si rischia di scambiare lo «psicodramma» per realtà. Ritornare con i piedi per terra è indispensabile. Stupefacente è lo stupore. Trump aveva promesso i dazi in campagna elettorale, anche se non era stato necessariamente chiaro sulla loro altezza e ampiezza di applicazione. Però i Paesi colpiti hanno avuto almeno un anno per prepararsi. Pensavano che scherzasse? Che fosse tutto un bluff? Ma se c’è una cosa su cui Trump è abbastanza prevedibile, è proprio questa: tende a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.

Il protezionismo, peraltro, non lo inventa lui. La Comunità europea nacque come una fortezza protezionista negli anni 50, e per certi aspetti è rimasta fedele alle origini: basta pensare alla politica agricola comunitaria. Con il passare dei decenni il protezionismo europeo si è evoluto, ha imparato a travestirsi da «ambientalismo» e da «salutismo»: così tante barriere europee contro i prodotti americani non sono fatte di dazi, bensì di regole sanitarie e tutele dei consumatori. Non è un caso che Trump abbia fatto calcolare i suoi dazi in base a un principio di reciprocità che tiene conto di tutte le forme di discriminazione che colpiscono le merci americane. Un criterio che però, secondo molti analisti, tra cui quelli di «Le Monde», non è né scientifico né basato su un vero rapporto di reciprocità.

I protezionismi mascherati, in ogni caso, sono una specialità della Cina. Quando nel 1999-2001 negoziò il suo ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, Wto), la Repubblica popolare ottenne un trattamento privilegiato: era un Paese molto povero e le fu concesso di proteggersi dalla concorrenza occidentale con robuste barriere. Pechino ha sempre avuto dazi molto più alti di quelli americani, ma ci ha aggiunto molte altre barriere, con giustificazioni e pretesti che vanno dalla sicurezza nazionale alla protezione dei consumatori, ma col risultato di essere un mercato molto chiuso. La forma più devastante di protezionismo cinese, per gli effetti sulle Nazioni occidentali, è stato l’obbligo per le aziende straniere che investono in Cina di scegliersi un socio locale al quale trasferire il proprio know how. Così la Cina ha saccheggiato i segreti industriali occidentali fino a diventare più competitiva di noi.

La consapevolezza di questi squilibri e storture stava crescendo in America da molti anni. La decisione di voltare pagina rispetto all’Età aurea della globalizzazione (quella segnata dai grandi accordi di libero scambio) era ormai bipartisan, univa democratici e repubblicani. Non a caso Joe Biden mantenne in vigore tutti i dazi del primo Trump, ne aggiunse di suoi, e aprì un altro fronte delle guerre commerciali con la politica industriale a base di sussidi per le aziende straniere che vanno a produrre in America. Il capo dei consiglieri di Biden per la sicurezza, Jake Sullivan, aveva teorizzato «una nuova politica estera e una politica commerciale fatte su misura per la classe operaia»: con quella espressione intendeva dire che l’era dei grandi accordi di liberalizzazione dei commerci aveva tradito gli interessi della classe operaia americana, l’aveva impoverita, aveva smantellato il settore manifatturiero, ed era urgente cambiare strada. Biden e Kamala Harris si vantavano di aver iniziato a rilocalizzare industrie sul suolo Usa, riportandovi oltre due milioni di posti di lavoro operai. Tutto questo serve a ricostruire il contesto storico del «Liberation Day» di Trump: non un fulmine a ciel sereno, ma il compimento di una correzione di rotta degli Stati Uniti, in buona parte condivisa dal Partito democratico.

Bisogna rassegnarsi a questa nuova realtà. Per molti decenni il mondo ha visto Paesi come la Cina, il Giappone, la Germania, l’Italia, farsi trainare dall’America usando il mercato americano come sbocco per le proprie esportazioni. Quei Paesi che hanno adottato modelli di sviluppo trascinati dall’export, hanno compresso i propri consumi interni, usando i consumi degli americani come motore della propria crescita. L’America spendacciona distribuiva il proprio potere d’acquisto al mondo intero. Quella divisione dei compiti non viene più accettata dagli americani, a quanto pare. È ora che gli altri ne traggano le conseguenze. La prima a reagire nel modo razionale è stata la Germania del nuovo cancelliere Friedrich Merz che ha deciso di diventare spendacciona a sua volta, col piano di investimenti pubblici da mille miliardi: si candida cioè a sostituire almeno in parte la domanda americana con domanda tedesca. La Cina prima o poi dovrà rassegnarsi a fare qualcosa di simile.

Per adesso siamo nella fase «teatrale» dello scontro, in cui ogni leader deve urlare il proprio sdegno per dimostrare ai propri elettori di curare i loro interessi. Poi si dovrà passare all’azione. Che non potrà limitarsi a rappresaglie e ritorsioni: poiché il commercio mondiale è stato asimmetrico per decenni, l’America ha il coltello dalla parte del manico, negandosi agli altri, facendo venir meno il proprio potere d’acquisto, può infliggere danni che gli altri non possono restituire se non in misura assai ridotta. Resta da capire se i dazi servono allo scopo di Trump. E a quale scopo. Trump ha sempre mantenuto una grande ambiguità. Ha parlato dei dazi in almeno tre versioni ben distinte. Primo: come una tassa che gli serve a fare cassa, prelevando ricchezze dal resto del mondo per restituirle agli americani sotto forma di sgravi fiscali. Secondo: come strumenti negoziali, per costringere gli altri Paesi alla reciprocità cioè ad abbassare le loro numerose barriere protezioniste e a diventare più aperti. Terzo: come strumenti per costringere le multinazionali americane o straniere a venire negli Stati Uniti a fabbricare i loro prodotti, quindi a reindustrializzare l’America e a riportare lì milioni di posti di lavoro che erano stati delocalizzati altrove. Ognuno di questi usi dei dazi incontra dei problemi. A cominciare da un problema generale: i dazi non possono servire a tutt’e tre queste funzioni. O l’una o l’altra. Per esempio, perché il gettito fiscale dei dazi sia molto elevato (obiettivo uno) l’America deve continuare a importare tanto, e questo contraddice l’obiettivo numero tre (produrre in casa). La sfida della reindustrializzazione in parte può essere vinta da Trump – come aveva cominciato a vincerla Biden – però resterà irraggiungibile in molti settori manifatturieri. Il costo del lavoro Usa è comunque troppo alto e l’America non avrà mai abbastanza operai per sostituire quelli cinesi, vietnamiti, messicani (a meno di riaprire le frontiere a un’immigrazione massiccia, cosa che Trump non vuole).

Resta aperta invece la possibilità che i dazi come strumento negoziale servano a qualcosa. Come ha dimostrato Israele abbassando subito i suoi dazi sulle importazioni made in Usa, ogni Paese o blocco di Paesi (come l’Ue) «ha la coscienza sporca», anche quando urla e s’indigna contro il protezionismo di Trump, perché ha tante barriere esplicite o inconfessate. Ora comincia una fase in cui alla sceneggiata delle proteste si affiancheranno le concessioni. I Paesi stranieri troveranno degli alleati preziosi in quelle lobby americane che non vogliono pagare più care le importazioni. Forse anche i consumatori americani faranno sentire la loro voce, se i dazi dovessero alimentare nuova inflazione.

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