È un omaggio al teatro di prosa nella sua accezione più alta e presto sarà messo in scena al Lac di Lugano (settimana prossima), e al Kursaal di Locarno, in autunno. Parliamo de L’Empireo, ovvero della versione italiana dell’opera The Welkin di Lucy Kirkwood, tradotta dalla dramaturg (consulente drammaturgica) Monica Capuani e portata in scena dalla regista Serena Sinigaglia, condirettrice artistica del Teatro Carcano di Milano, che ha sostenuto la produzione in collaborazione con il Teatro Nazionale di Genova, il Teatro Stabile di Bolzano, il LAC – Lugano Arte Cultura e il Teatro Bellini di Napoli.
Presentato nel 2020 al National Theatre di Londra, l’allestimento originale, diretto da Sarah Benson, si distingueva per una scenografia visivamente ricca firmata da Bunny Christie. La regista italiana ha scelto invece un approccio opposto, proponendo una rilettura essenziale. Debuttato nel gennaio 2025 al Teatro Carcano, dopo un primo reading nel 2023, l’Empireo si caratterizza per un allestimento scarno: uno spazio in penombra, quattordici sedie, le attrici con i copioni in mano e le didascalie lette in scena. Un impianto che richiama la solennità della tragedia greca, in linea con la poetica di Sinigaglia, la quale predilige un teatro capace di restituire valori universali richiamando il rito pubblico, proprio come quando il teatro classico veniva scritto per la polis.
L’opera, un dramma storico, si potrebbe leggere come una svolta femminista de La parola ai giurati (Twelve Angry Men) di Reginald Rose. Ambientata in un’Inghilterra marginale di un Settecento rurale, denuncia la violenza fondata sul genere perpetuata nella storia. Protagonista è Sally Poppy (Viola Marietti), condannata con il suo amante per un brutale infanticidio. Sally, per evitare l’impiccagione, sostiene di essere incinta. Il giudice convoca così una giuria di dodici donne per stabilire la veridicità della sua dichiarazione e decidere se commutare la pena in deportazione.
A guidare il confronto è Elizabeth (Arianna Scommegna), levatrice del villaggio, che richiama le giurate all’importanza di quel verdetto, capace di segnare un precedente per il futuro che le vede tutte in pericolo. Questo concetto dà avvio a un dibattito che diventa progressivamente più acceso: ciascuna donna racconta la propria esperienza, rivelando ferite, convinzioni, dissidi interiori. Tuttavia, l’unanimità necessaria tarda ad arrivare. Quando le grida del popolo si fanno sempre più insistenti all’esterno, reclamando la condanna, nella stanza avviene l’imprevedibile, che non riveleremo.
Un testo dal respiro quasi cinematografico che richiederebbe una messa in scena realistica, spiega Sinigaglia. Ma la sua forza, aggiunge, «sta nei temi, nella recitazione, quindi nel corpo delle attrici, nel coro». Monica Capuani, grazie alla quale il testo di Kirkwood è arrivato in Italia, sottolinea che «nel teatro maschile il corpo è bandito, censurato, mentre le drammaturghe contemporanee lo mettono al centro. Le donne, con il corpo, hanno un rapporto diverso. Gli uomini nella cultura lo rimuovono, è tutta testa; le donne, invece, lo riportano dentro, soprattutto nel teatro, che è corpo». La messinscena diventa un’orazione civile, una commemorazione di tutte le vittime di violenza di genere. «Il teatro – afferma Sinigaglia – diventa una chiesa laica, e il copione in scena, un libro di preghiere».
La traduzione conserva la crudezza e la complessità del testo originale, mentre la regia ne valorizza l’impianto epico. Quella che potrebbe apparire come una scelta di eccessiva stilizzazione si rivela invece un modo per approfondire i temi dell’opera, evidenziandone la portata universale. Un’operazione che, pur rinunciando a un’immediatezza emotiva, amplifica il valore politico e simbolico di un testo tra i più incisivi del teatro contemporaneo.