Tra i venti di Petra e i mercati di Amman, antichi odori e moderni richiami sfidano i cliché turistici
Per il filosofo inglese John Locke l’esperienza è «il fondamento di tutte le nostre conoscenze». In altre parole, la nostra mente mette in relazione i dati sensibili, come ciò che vediamo o udiamo, i profumi e i sapori che sentiamo, il caldo e il freddo che proviamo, con gli oggetti che ci stanno intorno, diciamo con la realtà: in questo modo ci costruiamo idee del mondo. Insomma, ci interroghiamo continuamente, a partire dalle nostre percezioni e sensazioni e interpretiamo ciò che ci circonda, imparando cose nuove, accumulando conoscenze. È anche la bellezza del viaggio, poiché quando siamo lontani dalle nostre abitudini e dalle percezioni usuali, siamo più attenti, più accesi, ci facciamo domande, cerchiamo di interpretare, di comprendere, insomma scopriamo il mondo.
Proprio per questo motivo i cliché del linguaggio da promozione turistica spesso appaiono noiosi e sviliscono la vera esperienza di viaggio, perché inducono a pensare per schemi sempre uguali e, in fondo, zittiscono le nostre vere percezioni: pensiamo al Vicino Oriente, spesso raccontato per i profumi delle spezie, i colori dei tessuti, i sapori della cucina, i suoni e le danze tradizionali… sono tutte cose – anche se fossero vere – che ci suggeriscono cosa pensare, cosa sentire. Se invece proviamo a concentrarci su noi stessi, per esempio in un viaggio on the road in Giordania, magari i nostri cinque sensi ci portano altrove.
E allora i profumi non sono solo quelli delle spezie o della menta nel tè onnipresente (una trattativa commerciale, sia per una compravendita di una casa, sia per una sciarpa, non si comincia senza un tè sul tavolo), ma sono quelli in vendita nelle profumerie: essenze mediorientali che da un mercato di nicchia sono oggi diventate fra le più richieste al mondo; vengono dall’Arabia Saudita, dallo Yemen, dall’Oman, dagli Emirati Arabi. Senza arrivare alla celebre boccetta d’oro con diamanti e topazi da più di un milione di dollari (e in effetti non la si trova nel souk di Amman) basta dare un’occhiata al duty free dell’aeroporto (per quelli bastano poche centinaia di dollari), o alle profumerie della capitale (dove te la cavi con una decina di dinari, circa 12 franchi), per capire che questa è una nuova, grande moda globale, che i turisti non si fanno sfuggire: oud, musk, rosa, legno, zafferano, fragranze più intense e potenti rispetto a quelle occidentali, oleose e con meno alcol. Insomma si sentono, a ogni angolo di via, a ogni passaggio di persone. E se ne vedranno sempre di più anche sugli scaffali europei.
La vista poi, non è solo quella dei tramonti sul Mar Morto – che famiglie e gruppi di amici a bordo strada, con sedie, brandine e tavoli da pic-nic ammirano al venerdì, cucinando carne alla brace – la vista è anche quella delle statuette neolitiche di Ain Ghazal, forse le più antiche rappresentazioni antropomorfe del pianeta, che con i loro occhi bianchi e neri ci fissano interrogative, da almeno ottomila anni. Occhi enormi, aperti, attenti, forse troppo poco ammirati, in quella teca old style del museo della Cittadella di Amman.
Intanto, leggermente fuori sincrono, partono tutti i muezzin della città con il richiamo alla preghiera, ma non è questo l’unico suono della Giordania: a un centinaio di chilometri a Est della capitale, sono gli F104 che decollano dalla base militare di Azraq a tuonare nei cieli, di certo non con il plauso di orici, struzzi e onagri che vivono nella riserva naturale vicina, sorta dove c’era la grande oasi alle porte del deserto. Da lì parte la strada dei castelli, oltre a quello di Azraq – teatro delle gesta di Lawrence d’Arabia, che appoggiò le rivolte contro gli Ottomani – c’è Amra, con i suoi affreschi osé, e l’imponente Qasr al-Kharana, fino a giungere alla città di Madaba, dove inizia la Via dei Re, che porta fino al sud del Paese.
Una strada spettacolare, che si solleva sui fianchi delle montagne, per poi precipitare a fondo valle, in un deserto alternato a rivoli e piccoli bacini, c’è una diga, un posto di polizia, qualche bar a strapiombo sull’infinito, fino a giungere al Wadi Rum, il deserto che ti sferza con il suo vento rosso come la sabbia, tra distese piatte, dune, rocce e arbusti rasoterra. Dire che sembra Marte è perfino banale, dopo che Ridley Scott ha raccontato di non aver fatto altro che un po’ di correzione verso il giallo alla pellicola, perché il resto era già tutto lì, un set perfetto per il suo The Martian. Ma quelle rocce nascondono iscrizioni antiche, grotte, tende beduine e naturalmente piccoli negozi e cammelli da trekking per i turisti, che qui si aggirano a bordo di 4×4 guidati da beduini adolescenti, padroni di queste piste fra le dune.
Quel vento, che ti tocca in continuazione, ha disegnato questo deserto e proseguirà la sua opera, sminuzzando ogni montagna e trasformandola in sabbia, lo stesso vento che ha levigato le stupefacenti facciate delle tombe di Petra, che spazza le spiagge del Mar Rosso, di fronte a Israele e all’Egitto, che spettina il pelo dei gatti giordani, compagni di viaggio costanti e sinuosi, fra le rovine dei siti archeologici, nei vicoli delle città, nei lounge degli alberghi più alla mano.
E infine i sapori, ma non quelli dello hummus o del moutabel, la salsa di melanzane leggermente affumicata, che pure non possono mai mancare sulle tavole dei ristoranti, ma il sapore della shisha, come viene chiamato il narghilè dai giordani: mela, fragola, limone e menta, Candy, praticamente come le caramelle dei bambini, ma immerse nel tabacco. Il fumo bianco e freddo che inonda dolciastro le verande dei locali, il rumore di bolle d’acqua a ogni tiro, donne e uomini che ridono, cantano, chiacchierano, i camerieri che periodicamente passano a ricaricare i carboni e a soffiare via dal filtro la cenere. Una danza di mani, occhi, volute di fumo, odori che si mescolano, in un rito collettivo che unisce una fetta di mondo, da qui fino all’India.
Il viaggio è guardarsi attorno e fare nostro il mondo, semplicemente. Aveva ragione John Locke.