Il mondo cambia: non ci sono più i matti di una volta

Riparte dal tema dei margini la seconda edizione di Echi di storia, il festival tutto ticinese che, attraverso ospiti importanti non solo svizzeri, intende coniugare i grandi temi della storiografia con la capacità di divulgazione. «I margini – spiegano gli organizzatori – sono spazi fisici, sociali e simbolici: terre di frontiera, culture minoritarie, idee rivoluzionarie e figure dimenticate. Sono il luogo dell’esclusione, ma anche della resistenza e della trasformazione».

E chi è più ai margini dei folli? Delle persone che per lunghissimo tempo sono state segregate per i propri disturbi mentali?

Lo abbiamo chiesto a una delle ospiti dell’evento, Vinzia Fiorino, che insegna Storia contemporanea e Studi intersezionali di genere all’Università di Pisa e si è occupata in modo particolare di storia sociale e culturale della psichiatria.

Vinzia Fiorino, partiamo dai manicomi: come sono nati?
I manicomi nascono all’indomani della Rivoluzione francese quando alcuni medici pensano di offrire una soluzione pratica: il ricovero in uno spazio ad hoc, il manicomio. Non si avevano idee molto precise sulle cause della malattia mentale, ma questa fu comunque concettualizzata e catalogata in schemi di classificazione che volevano essere rigidi. La risposta pratica è più interessante: segregare i malati.

L’internamento è stata la risposta terapeutica?
Esatto. È un punto cruciale che differenzia il manicomio dagli altri ospedali, dove si poteva andare per un periodo limitato. La risposta alla malattia mentale è l’internamento, la totale presa in carico da parte degli alienisti di un soggetto che, allontanato dal suo contesto di provenienza sociale e familiare, è totalmente gestito dal corpo medico per essere assoggettato a un nuovo ritmo di vita.

Si pensava che questa riorganizzazione favorisse il ripristino delle categorie spazio-temporali smarrite in seguito alla malattia. Questo paradigma non darà i frutti sperati e sarà solo un modo per difendere la società dai matti.

Basaglia, che sovvertirà questo schema, dirà infatti «la libertà è terapeutica», la risposta alla malattia non è più l’internamento ma la pratica della libertà.

Resiste ancora lo stereotipo romantico del folle che traspare, soprattutto, nei testi letterari?
Non tanto. Certo è sempre attivo un codice che fa dell’artista una figura del disordine, dell’originalità imprevedibile. Ma nelle forme artistiche contemporanee, che con molti limiti cerco di frequentare, non vedo più quest’attitudine. Credo sia venuta meno la figura dell’artista dandy, stravagante, che conduce una vita irregolare.

Anche il binomio genio-follia è in declino?
Secondo me sì. Forse assistiamo a una produzione artistica che non è più circondata da un’aura di genialità ma da una fattività, cioè da una ritualità più prevedibile. Non è un lavoro certamente burocratizzato, ma non ha più quella retorica della genialità che aveva connotato i decenni e i secoli precedenti.

Un altro binomio è quello follia-pericolosità. Quanto è fondato e quanto è diffuso?
Diffuso tantissimo, proprio perché la psichiatria ha storicamente messo insieme i due ambiti. Dal momento che si teorizza che il folle è un incapace di intendere e di volere, incapace di contenere le proprie pulsioni passionali, la pericolosità emerge come logica conseguenza.

Questo connubio è stato disastroso. Io penso, viceversa, che moltissimi crimini siano da attribuire ad altre contraddizioni sociali, non a un problema di sofferenza psichica. Questo binomio, comunque, ha avuto una pervasività veramente importante e per certi versi è stata persino destabilizzante perché non ha fatto vedere molti problemi. Troppi crimini sono stati derubricati come frutto di malattie mentali, senza approfondire le contraddizioni sociali che ne stavano all’origine.

Penso, per esempio, a tutta la complessa problematica del femminicidio. Sentiamo parlare di raptus, di follia, ma i responsabili di questi crimini non sono affatto folli, ma esponenti di un mix tra antichi ordini culturali patriarcali e nuove contraddizioni sociali.

La follia è curabile?
Non sono una psichiatra, penso però che l’internamento manicomiale non curava, anzi, che i manicomi amplificassero la malattia perché erano istituzioni tese alla costruzione della lungodegenza. E alla definizione del soggetto folle. Erano macchine che finivano con l’irrobustire la sofferenza, la cronicizzavano. Viceversa, tutte le persone che si trovano in situazioni di disagio devono essere aiutate, accompagnate dai servizi territoriali, spronate a vivere in contesti di socialità.

Conosco molti esempi di persone con patologie gravi che sono riuscite a recuperare moltissimo e a condurre vite assolutamente soddisfacenti.

Cosa pensa dell’uso dei farmaci?
Non lo stigmatizzo, possono aiutare molto chi soffre. Il problema è l’abuso di questi farmaci e soprattutto l’idea che lo squilibrio, la sofferenza psichica, sia soltanto una questione chimica, ereditaria o genetica.

Penso che sia sempre possibile ritrovare degli equilibri, anche precari, se si alimenta la voglia di vivere in relazione con gli altri. Il punto è la relazione con altri; oggi drammaticamente negata in molti casi di sofferenza giovanile.

E della contenzione fisica?
Quella mai: slegalo; slegalo subito.

I matti di oggi sono uguali ai matti di ieri?
Oggi siamo dinanzi a una società che sta erigendo muri di intolleranza verso varie forme di diversità. Le malattie mentali hanno una loro storia profonda che ci rinvia a contraddizioni interne alle società.

Non sono convinta che la malattia, il disagio, la sofferenza, che pure esistono, siano sempre state le stesse. E non credo neppure che si tratti solo di nominare la malattia con etichette nosografiche diverse. Penso che la società, ogni società, abbia le proprie forme di disagio mentale.

Come è cambiata la follia?
In La storia della follia Michel Foucault individua un passaggio culturale e storico fondamentale, da una fase in cui l’umanesimo aveva portato a una ricerca sull’umanità e quindi sulle sue alterazioni, sulle sue diverse epifanie, a un ordine che si impone – dopo il Seicento – incentrato su una maggiore razionalizzazione e un sistema economico differente, meno interessato e tollerante nei confronti della ricerca umanistica.

L’uomo appare qui assoggettato a un lavoro razionale, a un ordine a cui persino la Chiesa si adegua cominciando a controllare il sentimento religioso, dicendo che non bisognava eccedere nelle preghiere e vivere sì il proprio sentimento religioso in modo misurato. I valori dominanti diventano la razionalità, la dedizione al lavoro, l’operosità.

Se per un verso si irrigidiscono i sistemi normativi, per un altro si alzano i muri dell’esclusione. Chi, per motivi diversi, non riusciva a obbedire a questi nuovi imperativi restava ai margini, chiuso nel suo disagio. L’Ottocento, quando questi processi sono più compiuti, conosce nuove contraddizioni.

Quali?
Da una parte si vuole dare più spazio alle soggettività, emerge il soggetto moderno che vuole avere dei diritti politici e la sua porzione di sovranità. Dall’altra ci sono più poteri, alcuni tradizionali, altri rinnovati: la Chiesa cattolica attraverso anche le sue figure vicine al tessuto sociale, penso ai parroci, e il nuovo Stato che impone una polizia più strutturata e un ordine giudiziario che costituisce ancora un altro potere.

Da una parte c’è l’idea dell’affermazione individuale – con le rivendicazioni dei diritti – dall’altra i poteri statuali che impongono nuove obbedienze. Le civili libertà della società ottocentesca mostrano subito i propri limiti e le proprie contraddizioni.

E oggi?
Oggi vediamo dilagare lo stigma, l’umiliazione, l’oltraggio. Quello cui stiamo assistendo in questi giorni è raccapricciante. Non si è mai visto tanto disprezzo verso le persone in sofferenza e verso i ceti più poveri. Le società occidentali stanno cambiando velocemente e conoscendo forme di cattiveria e di disumanizzazione inaudita.

A che cosa si riferisce?
Citerei, fra i tanti possibili esempi, il famoso video generato anche dall’intelligenza artificiale che mostra Trump, Netanyahu e Musk in una Gaza simile a una riviera turistica. Come è stato possibile pensare una tale aberrazione?

Un delirio di onnipotenza?
Sì, ma non una forma di follia. Tutto questo ha una sua razionalità diversa da quella a cui eravamo abituati. Oggi c’è un nuovo ordine basato sul dominio di capi assoluti che si avvalgono di gruppi di potere economico altrettanto potenti e che si credono liberi di perseguire qualsiasi obiettivo.

Tutto questo ci restituisce un diverso ordine internazionale, una trasformazione culturale ed economica profonda. Ma non è follia, è una diversa partitura fondata sull’arbitrio assoluto dei potenti.

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