Chi si oppone all’autoritarismo di Netanyahu non può ignorare le atrocità commesse a Gaza come in Cisgiordania
Lo scorso 18 marzo Israele ha sorpreso Gaza con un attacco militare che ha posto fine alla già fragilissima tregua con Hamas. Insieme ai civili di Gaza, a farne le spese sono gli ostaggi israeliani il rilascio dei quali era previsto per la seconda fase dell’accordo, così come le loro famiglie che per mesi avevano scongiurato una ripresa dei combattimenti. Secondo i sondaggi, circa il 70% della popolazione si dichiara attualmente favorevole alla fine del conflitto, una percentuale elevata, che racconta la stanchezza degli israeliani, l’empatia nei confronti degli ostaggi, ma anche dei soldati che da un anno e mezzo portano sulle spalle il peso più gravoso.
Il dissenso dell’opinione pubblica non sembra tuttavia sortire alcun effetto sul Governo Netanyahu che insiste nel perseguire una linea violenta, la cui matrice sembra riconducibile ad interessi di natura prettamente politica. Non è da escludersi, per esempio, che dietro alle nuove azioni militari a Gaza si sia celata anche la necessità del primo ministro di persuadere il ministro Ben Gvir, e altri esponenti del sionismo religioso, a rientrare nella coalizione. Il consenso di questi ultimi è stato infatti fondamentale per scongiurare la caduta del Governo al momento dell’approvazione del bilancio annuale votato il 25 marzo. Si tratta di un bilancio problematico che favorisce coloni e ultraortodossi, scaricando i costi della guerra sul resto della popolazione che fa le spese di tagli e rincari.
Nel frattempo avanza senza pudore anche la famigerata riforma giudiziaria che lavora incessantemente per sbarazzarsi degli ultimi baluardi della democrazia. A finire nel mirino della coalizione nelle scorse settimane sono stati soprattutto Ronen Bar, capo dello Shin Bet, la procuratrice generale Gali Baharav Miara e i giudici della Corte Suprema. Con la rimozione controversa di Bar, la mozione di sfiducia a carico della procuratrice e l’approvazione di una legge che politicizza la scelta dei giudici dell’Alta Corte di Giustizia, Netanyahu ha provocato ulteriormente la componente liberale del Paese, già esasperata dalla questione del mancato arruolamento effettivo degli ultraortodossi nonostante le migliaia di cartoline spedite ai giovani in età di leva. Così, se dal 7 ottobre le proteste contro il Governo si erano indebolite a favore di quelle a sostegno degli ostaggi, da qualche settimana le manifestazioni davanti alla Knesset, il Parlamento di Gerusalemme e nei pressi del Quartier Generale di Tel Aviv, hanno luogo senza sosta, nonostante la ferocia inaudita della polizia contro i civili.
Le forze dell’ordine sono attive anche in Cisgiordania, che continua ad essere teatro di violenza e di morte. Ma la sostanziale impunità degli aggressori ebrei che assalgono ormai quotidianamente le popolazioni palestinesi soprattutto nell’area di Hevron, getta luce sull’ambiguità del sistema giuridico israeliano proprio nel momento in cui la Corte Suprema sembra essere uno dei pochi attori dotati del potere di contrastare Netanyahu nelle sue iniziative più criticabili. Minacciato dai processi a suo carico, per i quali in queste settimane è chiamato a deporre presso il Tribunale di Tel Aviv, il primo ministro israeliano è sempre più coinvolto anche nello scandalo del «Qatargate» che ha subito un’impennata lunedì scorso con l’arresto di Jonathan Urich, suo consigliere senior per i media, ed Eli Feldstein, suo portavoce militare. I due sono accusati di contatto con un agente straniero, riciclaggio di denaro, accettazione di tangenti, frode e abuso di fiducia come parte di un’indagine sui legami tra l’ufficio del primo ministro israeliano e funzionari del Qatar. Netanyahu, che lunedì era in tribunale per testimoniare nei suoi casi di corruzione e frode, è stato costretto a lasciare l’aula per deporre nella vicenda che coinvolgeva i suoi confidenti, a loro volta difesi dal suo avvocato in palese conflitto di interesse.
Tra le poche armi rimaste agli israeliani per contrastare quello che a diversi osservatori sembra un regime, vi sono il rifiuto dei riservisti di rispondere alla prossime chiamate, l’attuazione di scioperi che paralizzino l’economia del Paese e l’acquisizione di autonomia da parte delle autorità locali rispetto al potere centrale, soprattutto in campi come l’istruzione che pagano maggiormente il prezzo del clima anti-liberale che impronta le decisioni del Governo in carica. Intanto, ad esprimere preoccupazione per l’erosione della democrazia e la repressione della libertà di espressione si levano in questi giorni le voci più influenti del Paese, dai rettori delle università, ai vertici dell’economia e dei sindacati, fino a noti esponenti dell’intelligence.
Tuttavia, la narrazione che accompagna le proteste israeliane continua a soffrire dello stesso paradosso. Dopo 18 mesi nei quali è in corso uno sterminio, manifestare in difesa della democrazia ignorando sistematicamente le atrocità commesse a Gaza come in Cisgiordania è inconcepibile, così come lo è la totale assenza delle voci «occupazione» e «palestinesi» dalla retorica di chi sale sul palco in nome della libertà. Non si tratta solo del lavaggio di cervello mediatico al quale per altro gli israeliani sono sottoposti quotidianamente, bensì di un’educazione e un indottrinamento che cominciano in età scolare e che richiederanno molto tempo per venire sradicati anche qualora ve ne sarà la volontà. Sorge quindi il dubbio che sia proprio questa contraddizione intrinseca a compromettere l’efficacia delle proteste, indebolendole, mentre una maggiore onestà intellettuale e inclusività garantirebbero l’appoggio di altri settori della popolazione come gli ebrei osservanti e i palestinesi, rispettivamente demonizzati e ignorati, suscitando anche una maggiore empatia nei Paesi esteri. Insomma, la strada è ancora in salita e, benché molte delle iniziative di Netanyahu sembrino una sorta di aggressivo colpo di coda di un uomo braccato, è impossibile pronunciarsi sulle tempistiche, calcolando anche la variabile Trump nota per la sua proverbiale imprevedibilità.