Palazzo Fidia

Sconsolata, una bellissima e ombrosa Lucia Bosè con caschetto corvino e scialle cadente di volpe bianca nel buio della notte illuminata dai lampioni della città, si appoggia al portale in pietra del palazzo dove abita la protagonista da lei interpretata, Paola. È il finale di Cronaca di un amore (1950) di Antonioni dove il portone d’ingresso del capolavoro occulto dell’architetto outsider Aldo Andreani (1887-1971) diventa, in esterno notte in via Melegari, con dissonanze di sax in sottofondo e caratterizzato da una coppia di sfere bizzarre ai lati, luogo d’addio. A centotrentadue passi dall’orecchio-citofono di via Serbelloni, svoltando l’angolo in una via a gomito – Maffei per un breve tratto poi chiamata Melegari – ritrovo l’inquadratura cinematografica di Palazzo Fidia. Quando Paola Molon, moglie cinica e annoiata del ricco industriale Fontana, vede per l’ultima volta l’amato Guido (Massimo Girotti) andar via in taxi.

Tutto di mattoni in cotto cupo, con tessiture varie, salendo con lo sguardo, inizia il delirio assoluto del palazzo di Andreani costruito tra il 1929-32: precoce come canto del cigno. «Il folle palazzo Fidia, ai piedi del quale si formavano capannelli di milanesi inorriditi» osserva Dino Buzzati sul «Corriere della Sera» il primo maggio 1977. Tra bovindi spericolati che agguanto con gli occhi colmo di gioia, sporgenze spregiudicate, svasature, rientranze da brivido, asimmetrie fabulose, ghiere qua e là, ondeggiamenti del cotto, balaustrine inutili o cos’altro ancora, è un’architettura al limite, fuori categoria, classificabile forse solo come fantastica, la cui componente orrorifica è chiara. Mica per niente Edoardo Persico, su un «Casabella» dell’epoca, lo considera «castello dell’Innominato da servire pel prossimo centenario manzoniano». E di colpo, nella luce temporalesca di questo pomeriggio di marzo, la sua sfumatura drammatica si acuisce, l’atmosfera di questo angolo nascostissimo di Milano, s’inglesizza in un attimo. Il colore del cotto s’incupisce ancora di più.

Mi muovo seguendo con gli occhi, in un pianosequenza, mentre inizia a piovigginare, la sarabanda architettonica del palazzo il cui nome è acronimo dei cinque costituenti di una società anonima – tra i quali Andreani e l’ingegner Fadini – che combacia guardacaso con lo scultore-architetto ateniese. E saltando da archi a vanvera a timpani e pinnacoli, mi vengono in mente le prospettive decadentiste-vorticose di Piranesi. Palazzo d’angolo, da via Melegari (ambasciatore italiano a Berna dal 1867 alla morte, tra l’altro) svolto in via Mozart dove continua, meno sfrenato, il «sottaciuto erotismo» come scrive Mario Lupano, co-autore di Aldo Andreani, visioni, costruzioni, immagini (2015). Anche se qui, lassù, catturo delle lievi sporgenze create con il cotto, cambi di direzione-increspature che già solo quelle varrebbero la pena. Il cotto di Andreani richiama, più che quello lieto delle chiesuole romanico-lombardo sparse nella città e dintorni, la trama laterizia della Scuola di Amsterdam. In certe rientranze curvilinee barocche, vedo limpida la connessione con i colpi di classe di Piet Kramer che contemplai tempo fa gironzolando lì. Qui ora piove sul serio, non smetto però di vagare con lo sguardo cercando i migliori scorci andreaniani che potrebbero essere anche letti come «frammenti piranesiani ricomposti» come ha scritto qualcuno che non mi ricordo più.

Dimenticato per anni, il palazzo protagonista degli ultimi fotogrammi del primo film di Antonioni, riappare, nell’occhio fotografico di Ugo Mulas nel 1963 e poi ritorna come rinato e capito una buona volta, negli scatti anni ottanta di Gabriele Basilico. Ritorno in via Melegari dove si trova la parte più eccessiva dell’architetto marginale che ha abitato qui – casa-studio per progetti irrealizzati – come Paola Molon. Il cui punto d’appoggio, nel finale dell’elegante dramma torbido con venature noir, penso di aver identificato e lo accarezzo. Da vicino sembra granito rosa di Baveno levigato, ma non sono un petrografo e non ne ho trovato notizia da nessuna parte. So solo che l’appoggiarsi in vestito da sera della sfinita Lucia Bosè diciannovenne contro il portone d’ingresso di via Melegari due, con la coppia stramba di sfere ai lati e dentro una rientranza convessa particolare, contiene tutta la tragicità di ogni amore e del destino finito nell’ombra del fulgido Andreani.

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