Poveri cristi

Sarà Tomaso Montanari, storico dell’arte e Rettore dell’Università per stranieri di Siena, ad aprire l’edizione 2025 del Festival Echi di Storia, dedicata quest’anno al tema Margini. La sua lectio, in programma giovedì 10 aprile alle 20.30 all’Asilo Ciani, porta un titolo che è già una presa di posizione: Poveri cristi. Riflessioni sull’iconografia della povertà nella storia dell’arte moderna. Non una semplice rassegna di immagini, ma un’indagine sul potere dello sguardo e sui suoi limiti.

Chi ha deciso come rappresentare la miseria? Chi ha avuto accesso alla scena della storia e chi ne è rimasto fuori campo? E dove vanno a finire i poveri una volta usciti dal quadro?

Montanari ci invita a interrogare il nostro sguardo. Perché l’arte non è mai innocente. Ogni immagine è una decisione: su chi può essere visto, su come deve apparire, su quale emozione deve suscitare. È il pittore – o chi lo paga – a fissare i confini del visibile: ciò che si mostra e ciò che si occulta, ciò che si eleva a oggetto di compassione e ciò che si degrada a decoro dell’ordine costituito.

In questo senso, la storia dell’arte è anche una genealogia del potere. Uno sguardo che domina, organizza, normalizza. E che, talvolta, lascia filtrare la verità.

A guidarci in questo itinerario visivo è la figura del «povero cristo», non solo emblema cristiano ma anche incarnazione collettiva della miseria, della fragilità, della marginalità sociale. Dal Seicento in poi, l’arte si è confrontata con la povertà oscillando tra compassione e decoro, tra denuncia e retorica. Caravaggio, in questo, ha rappresentato uno spartiacque.

Nato a Milano nel 1571, cresciuto artisticamente nell’ambiente lombardo influenzato dal naturalismo veneto e dalla pittura dei Paesi Bassi, Caravaggio ha radicalizzato la verità dell’immagine, dando corpo e dignità agli ultimi.

Nei suoi quadri, i poveri non sono solo soggetti, ma presenze reali. Sono mendicanti, pellegrini, prostitute, sono i garzoni del suo tempo. Sono persone vere, colte nella luce radente di un Dio che irrompe nella storia non per premiare i giusti, ma per illuminare gli umili.

La Madonna dei Pellegrini (1604-1605), nella cappella Cavalletti a Roma, ne è esempio lampante: una prostituta in carne e ossa, Lena, ritratta come Vergine Maria, accoglie due fedeli logorati dalla strada. Scandalo e rivelazione insieme. Non c’è idealizzazione, non c’è gerarchia tra sacro e profano. C’è solo verità, nuda e scandalosa.

Caravaggio, scrive Montanari, è stato tra i primi a rompere la catena che univa la funzione del quadro al suo valore estetico. La sua arte non serve nessuno e proprio per questo parla a tutti. La povertà, nella sua pittura, non è ornamento, ma detonatore di senso. È materia viva che interpella, che ferisce, che ci costringe a guardarci allo specchio.

E allora, cosa guardiamo davvero quando guardiamo un «povero cristo»? Vediamo la sofferenza o la bellezza? Vediamo un grido o una posa? Vediamo un’ingiustizia o un destino? Sono domande cruciali, soprattutto oggi, in un’epoca in cui la povertà torna a essere spettacolarizzata, esibita sui media, manipolata nel discorso politico. Montanari ci invita a tornare alle immagini per tornare a noi stessi: perché il modo in cui rappresentiamo la povertà dice molto del nostro rapporto con il potere, la giustizia, l’umano.

Guardare queste immagini, oggi, è un atto politico e morale. È chiedersi se l’arte abbia dato voce ai poveri o se li abbia traditi. Se abbia saputo mostrare il loro dolore o se lo abbia solo abbellito. È, infine, decidere se vogliamo continuare a usare la povertà come simbolo o se siamo pronti a riconoscerla come esperienza, come biografia, come verità.

È in questa linea che si inserisce Gustave Courbet, pittore francese dell’Ottocento che, come Caravaggio, rifiutò la pittura di convenzione. Nel suo Funerale a Ornans, la morte di un uomo qualunque – un contadino – viene rappresentata con la monumentalità che un tempo spettava ai re. I suoi personaggi non sono idealizzati, non sono nemmeno belli: sono reali, opachi, duri. La povertà non è più decorazione, ma condizione condivisa, scandita dai corpi, dai gesti, dai silenzi.

Courbet, come Caravaggio, non fa prediche. Non giudica. Mostra.

Mostra ciò che non si vuole vedere. Mostra ciò che non sta bene nei salotti borghesi. La povertà, nel suo caso, non è più soggetto sacro ma soggetto politico. Non più l’eccezione commovente, ma la norma disturbante.

Una pittura, quella caravaggesca – e in parte quella courbettiana – che non consola ma provoca. Che non illustra ma interroga. Che non salva, forse, ma risveglia perché, alla fine, il povero cristo siamo noi.
(*coordinatore Echi di storia)

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