Turchia, il malcontento arriva da lontano

L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, con le accuse di «corruzione» e «terrorismo», ha scatenato un putiferio in Turchia: un’ondata di manifestazioni di piazza, soprattutto nelle grandi municipalità, alla quale è seguita la dura repressione da parte delle autorità (arresti, violenze di diverso tipo, ulteriore blocco dei media ecc.). Come interpretare questi avvenimenti? «La notizia dell’arresto del principale sfidante politico del presidente Recep Tayyip Erdoğan è stata una sorta di detonatore, in un contesto di malessere diffuso», osserva Francesco Mazzucotelli che insegna Storia del Vicino Oriente all’Università di Pavia. «Stanno venendo al pettine nodi che la politica turca si trascina da tempo. Il primo: l’insoddisfazione della cittadinanza confrontata con una situazione economica molto negativa che si protrae da una decina d’anni. Con la pandemia, le guerre nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale, che hanno causato l’aumento del costo delle materie prime, la situazione è anche peggiorata. L’inflazione galoppa e la lira turca continua a perdere valore. Questo ha portato all’erosione del potere d’acquisto di una parte significativa della popolazione turca, anche del ceto medio, che non ce la fa più».

Al malcontento economico si aggiunge quello legato alla gestione dei migranti. In Turchia vivono ancora circa tre milioni di rifugiati siriani, fuggiti alla guerra civile scoppiata nel 2011 che ha portato alla caduta del regime di Bashar al-Assad (2024). Spiega Mazzucotelli: «Inizialmente, e per motivi strumentali, Ankara ha promosso una politica di “dispersione urbana” dei profughi (insediamenti “liberi” e non nei campi di accoglienza); ma questa presenza è divenuta ingombrante, faticosa, e ha dato origine a forme di rigetto accentuate, a tensioni forti tra una parte della popolazione turca – stremata come detto dalla crisi economica – e i rifugiati».

Infine c’è da considerare l’opposizione, da parte di alcuni segmenti della popolazione, alla politica sempre più autoritaria e repressiva di Erdoğan. «Un fenomeno che non è nato ieri», afferma l’intervistato. L’AKP – che inizialmente riuniva componenti più o meno tradizionaliste e si poneva come movimento di centrodestra – dal 2015 ha accentuato la sua tensione nazionalistica. Si è intensificata la logica autoreferenziale di Erdoğan, che già all’epoca mirava a una riforma presidenziale. Col passare del tempo si sono susseguite diverse crisi: dalle grandi proteste del 2013 contro l’autoritarismo (Gezi Park), al tentato golpe militare del 2016. Tutti avvenimenti che hanno reso sempre più forte ed evidente il piano accentratore di Erdoğan che nel 2014 era diventato presidente. Ora tutto passa dalla sua persona che ha imbastito legami sempre più stretti con l’estrema destra.

«In ogni caso negli attuali cortei di protesta si trova di tutto», sottolinea Mazzucotelli. «Dai gruppi nazionalisti a quelli religiosi, passando per l’estrema sinistra, e su tutto campeggia la questione curda che continua ad avere un ruolo forte nella politica turca. Alcuni manifestano per le condizioni economiche, altri per la questione dei migranti, intellettuali e studenti scendono in piazza per le idee di libertà e democrazia». L’opposizione è frammentata. Mentre fuori gioco, almeno per ora, rimane Imamoğlu. «Faceva paura ad Erdoğan perché è un personaggio popolare e carismatico; inoltre la posizione di sindaco di Istanbul – che dà grande visibilità e potere – è un trampolino di lancio per la politica nazionale. Ma la forza di Imamoğlu sta soprattutto nel suo essere a cavallo tra mondi diversi. Proviene infatti da un partito di centro e “laico” ma anche da una famiglia conservatrice e religiosa (difende posizioni di destra su temi quali la migrazione ad esempio), catturando consensi in ogni schieramento politico». Se non rientrerà in corsa gli scenari rimangono aperti; le elezioni presidenziali sono previste per il 2028…

Una personalità da tenere in considerazione è Özgür Özel, leader del Partito repubblicano del popolo (CHP), che rappresenta la principale alternativa all’AKP e ha lanciato appelli nel contesto delle manifestazioni. «Resta da capire se il CHP riuscirà a creare una sorta di accordo politico con il Partito democratico, prima noto come HDP, che rappresenta gli interessi dei curdi nel sud est della Turchia. E se emergerà il profilo di una personalità convincente che incarni una vera alternativa ad Erdoğan. Altrimenti, pur con il malcontento interno che talvolta esplode, la situazione rischia di rimanere bloccata».

D’altro canto, dice l’esperto, è molto difficile che Erdoğan retroceda. Le argomentazioni che ha usato a margine delle proteste sono le stesse del 2013 (Gezi Park). Il suo approccio rimane di stampo autoritario e paternalista: «Capisco, siete arrabbiati, vi ascolto, ma se andate in piazza siete balordi, teppisti e terroristi». «È improbabile che cambi le proprie posizioni politiche. È il suo stile, il suo modo di affrontare la politica ed è la sua visione del mondo». Inoltre – continua Mazzucotelli – Erdoğan continua a presentarsi come il leader assertivo che gioca un ruolo importante su diversi tavoli in politica internazionale (anche in Africa, dalla Libia alla Somalia). L’unico che riesce a dialogare allo stesso tempo con Putin e Zelensky e ha svolto un ruolo di mediazione nella crisi tra Mosca e Kiev (pensiamo solo alla firma di un accordo nel 2022, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per sbloccare l’export di grano ucraino attraverso il Mar Nero). «Si è anche intestato il merito del cambio politico in Siria e della vittoria dell’Azerbaigian contro i secessionisti armeni nel 2023». Una parte di realtà e molta retorica, insomma. E dall’esterno qualche punto di domanda sorge, dice l’intervistato: «Di sicuro la Turchia è presente su diversi tavoli di negoziato, ma ci sta in maniera ambigua, cinica e spregiudicata. E in alcune situazioni – come quella in Siria – è forse troppo presto per parlare di una vittoria. Il nuovo leader siriano è certamente più vicino ad Ankara rispetto ad al-Assad ma a Damasco la situazione è tutt’altro che stabilizzata e chiara».

Parliamo ora dell’America. «Mi ha colpito molto il fatto che Elon Musk sia intervenuto bloccando gli account su X di alcuni membri dell’opposizione anti-Erdoğan, una presa di posizione chiara. Dal canto suo Trump ha dichiarato: “Erdoğan è un bravo presidente”, ma sappiamo che nel giro di 24 ore potrebbe cambiare idea. Il punto però è un altro: si tratta di una modalità di concepire le relazioni internazionali in maniera personalistica, molto diversa a quella a cui siamo abituati. Questi personaggi si trovano bene tra di loro perché parlano la stessa lingua. Trump ed Erdoğan considerano le relazioni tra Paesi come relazioni tra leader. Possono confliggere su alcuni argomenti (Palestina-Israele ad esempio) ma la grammatica delle relazioni internazionali, il vocabolario che usano sono gli stessi: ce la vediamo noi due. Se questa cosa funzionerà lo vedremo, ho qualche perplessità».

Infine l’Europa che in questo contesto, come in tanti altri, riesce a dire poco. «Il rapporto Ue Turchia è incartato. È stato fortemente condizionato dall’accordo del 2016 sui migranti al confine con la Grecia e la Bulgaria. Ora l’Ue e alcuni singoli Paesi si limitano a ribadire alcune affermazioni di principio: difesa della libertà di espressione, condanna della repressione dei manifestanti ecc. Niente di più. Così come in altre situazioni, emergono poi sempre forti divergenze tra i Paesi europei e questo impedisce all’Unione di assumere una posizione chiara, stabile e comune. Si va in ordine sparso, facendosi portare dal corso degli eventi».

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