Da oltre quarant’anni, Amos Gitai indaga la complessità del contesto mediorientale con uno sguardo particolare, capace di racchiudere mondi diversi, fatti di esili e partenze senza ritorno. Dal documentario House (1980), dedicato alla storia di una casa di Gerusalemme ovest, appartenuta a una famiglia palestinese e poi riassegnata a una famiglia di ebrei algerini, al suo ultimo film, Why War (2024, presentato anche alla Mostra del Cinema di Venezia) – una pellicola che si interroga sulle radici della guerra – sino alla pubblicazione di A Private Glossary (Rizzoli, 2025), in cui ha raccolto alcune delle riflessioni che accompagnano la sua filmografia; un glossario intimo, che ripercorre la sua vita e il suo percorso artistico. Lo abbiamo intervistato.
Non è un periodo facile…
Quello che vivo in questo momento è un rapporto profondamente contraddittorio. Da un lato, mi sento legato alla grande eredità della cultura ebraica, che ha portato così tante idee straordinarie alla nostra civiltà; dall’altro, sono sconvolto dal modo in cui i politici contemporanei hanno tradito i principi fondanti della nostra cultura. In Israele oggi ci troviamo di fronte a una realtà politica difficile: manca una figura capace di avere coraggio, e persino ottimismo, nonostante tutto ciò che sta accadendo in Medio Oriente. Qualcuno che sappia guardare avanti, tendere la mano e creare un dialogo. L’assenza di una visione di questo tipo è drammatica. In questo contesto, il film che ho dedicato all’assassinio di Yitzhak Rabin diventa un vero e proprio atto civico.
Il suo ultimo film, Why War è una riflessione universale sulla guerra, ma l’urgenza di realizzarlo è legata agli eventi del 7 ottobre e a quanto accaduto in seguito. Quali sono le sue considerazioni oggi, a un anno e mezzo di distanza?
Penso che questo sia un momento estremamente triste per il Medio Oriente, per israeliani e palestinesi. È fondamentale che cerchino di intraprendere nuove strade nelle loro vite, perché non possono continuare a perpetuare questo conflitto senza fine, che porta con sé soltanto distruzione. I miei pensieri sono costantemente rivolti a ciò che sta accadendo nella regione, sebbene non appartenga a nessuna fede religiosa, a volte ho la sensazione che dovrei fermare tutto e iniziare a pregare.
La sua intera filmografia indaga questi eventi, in che modo il suo percorso personale ha influenzato le sue scelte?
Quella che ho deciso di intraprendere circa quarant’anni fa è stata una sorta di missione. Avrei dovuto seguire le orme di mio padre e diventare architetto, ma poco dopo i vent’anni fui chiamato a prestare servizio come riservista nella guerra del Kippur. Al mio ritorno, dopo essere sopravvissuto all’abbattimento dell’elicottero su cui viaggiavo, sentii il bisogno di trovare un mezzo che mi permettesse di raccontare in modo più diretto ciò che accadeva nella mia regione. Mi interrogo di continuo su come sia possibile portare avanti la produzione artistica e culturale in un luogo che vive perennemente in uno stato di crisi. È come stare seduti su un vulcano in continua eruzione. L’intera situazione, il modo disumano in cui le persone si comportano le une con le altre, va oltre qualsiasi cosa si possa esprimere a parole. Credo che l’arte non possa cambiare la realtà nell’immediato, ma possa lasciare una traccia indelebile: questo è il suo potere. Penso sempre a ciò che ha fatto Picasso: con Guernica, ha impresso nella memoria collettiva l’orrore dei bombardamenti nazisti e fascisti sulla città basca. Fortunatamente o sfortunatamente, non possiamo cambiare il corso della storia, ma possiamo far sentire la nostra voce. Fare cinema o teatro non significa trasformare all’istante la realtà, ma influenzare il modo in cui alcune persone la percepiscono. E questo è già un inizio.
Una delle peculiarità di Why War è l’assenza di immagini di guerra: il film preferisce la parola come strumento per esplorare i meccanismi e le origini della violenza. Quanto influisce il modo in cui la guerra viene raccontata sulla percezione della realtà?
Ho realizzato un film sulla guerra senza mostrarne le immagini perché credo che i media, trasmettendo di continuo scene di conflitto, finiscano a volte per alimentarlo. Se, da israeliano, vedo senza sosta storie di rapimenti e stupri, questo non può che aggravare la mia percezione della realtà. Se, da palestinese, assisto ogni giorno alla distruzione di Gaza e al massacro di un numero incalcolabile di persone, come posso desiderare che tutto questo finisca? Il modo migliore per raccontare la guerra non è concentrarsi sul conflitto, ma cercare di mostrare delle alternative: modi in cui le persone possano relazionarsi, superando la convinzione che i rapporti di forza siano l’unico strumento possibile. Anche l’Europa, non molto tempo fa, ha vissuto due guerre mondiali costate la vita a milioni di persone, solo per giungere alla consapevolezza che i conflitti possono essere risolti senza ricorrere alla guerra. Eppure, osservando ciò che sta accadendo oggi, sembra quasi che alcuni abbiano dimenticato quella lezione. Spero che le persone riescano finalmente a comprenderlo.
Why war esplora inoltre il rapporto tra le scelte individuali e il contesto sociale e politico, cercando di comprendere perché la guerra continui a essere vista come una risposta ai conflitti.
Il film riflette su un carteggio tra Einstein e Freud, in cui, già novant’anni fa, si interrogavano sulle ragioni per cui gli esseri umani facessero la guerra. Questa domanda resta attuale ancora oggi: perché persone intelligenti ricorrono alla violenza per risolvere i conflitti, invece di trovare altre soluzioni? Io non mi schiero da nessuna parte. Condanno le atrocità commesse da Hamas, così come la distruzione che sta avvenendo a Gaza. Il mio sguardo non è etnocentrico: provo vicinanza e senso di giustizia nei confronti di entrambe le parti.
Nei suoi film sono presenti numerosi riferimenti personali e familiari, legati a un altro tema centrale della sua ricerca: l’identità ebraica.
Parte della corrispondenza relativa alla storia di mia madre si trova al Centro Primo Levi di New York ed è stata raccolta in un libro: Storia di una famiglia (Bompiani, 2012). I suoi genitori fuggirono dalla Russia dopo l’ondata di pogrom scatenata dal fallimento della Prima Rivoluzione Russa. Mia madre nacque nel 1909, lo stesso anno in cui fu fondata Tel Aviv, sorta accanto alla città palestinese di Giaffa. Quella generazione di uomini e donne non aveva uno Stato, ma possedeva una forte identità. Erano ebrei, ma non osservanti. Non erano religiosi, eppure amavano profondamente la loro identità e riuscirono a vivere in un luogo che sentivano loro, un posto che avevano contribuito a costruire ben prima della nascita dello Stato di Israele. Non avevano bisogno che qualcuno spiegasse loro cosa significasse avere un’identità ebraica, né sentivano il bisogno di spiegarlo ad altri. Da queste persone possiamo trarre grandi lezioni sull’identità: sono una fonte inesauribile di ispirazione. Grazie a loro possiamo riflettere, creare il nostro percorso e la nostra strada, guidati proprio dal nostro passato.
Lei ha dedicato una trilogia al Golem, Nascita di un Golem (1990), Lo spirito dell’esilio (1992), Il giardino pietrificato (1993), una figura piena di significato nella mitologia ebraica. Cosa rappresenta per lei?
Il Golem raffigura una grande simbologia legata all’identità, poiché è la risposta a un’oppressione. È stato creato come un simbolo per permettere alla popolazione ebraica di liberarsi e salvarsi dai loro oppressori. Tuttavia, se non viene trattato con cautela, se questo artificio non viene maneggiato con attenzione, si corre il rischio di essere distrutti, e in fondo è proprio quello che sta accadendo. Si tratta del rapporto tra ciò che creiamo e i suoi effetti, che può portarci al progresso o, al contrario, alla distruzione stessa. Ho discusso di questi temi con Jean-Luc Godard poco prima della sua morte; lui era molto affascinato dalla Cabala. Credo che in queste riflessioni si possa trovare qualcosa che ci salvi.