Nel nuovo libro di Maurizio Cucchi, La Scatola Onirica (Lo Specchio, Mondadori; candidato al Premio Strega Poesia 2025) torna tutta quell’idea dello scrivere che muove il grande autore sin dai suoi esordi poetici e anche poi via via nelle forme narrative, che non può che intendersi se non come attività di scavo attraverso gli arnesi dei sensi, educati sin dalla giovinezza a essere sempre adiacenti alle cose del mondo. Sonde rabdomanti che captano l’accadere minimo del sempre incerto, talvolta tragicomico quotidiano riportato in verso nella sua molteplice contraddittorietà: «E allora vado io in mentale / escursione nei tempi in cerca di tracce / in luoghi sparsi e minimi partendo / in un circuito di radici nella domestica / geografia del minimo / da Cascina Spagnola località / corpi santi di Pavia… / […]». Quasi il lettore diviene parte del teatro naturale che va disegnandosi nella pagina.
Dicevamo attività di scavo e certo essa non può che prendere l’abbrivio da quel territorio minimo lombardo fatto di piccole comunità costituitesi nei tempi delle generazioni e dove, risalendo da individuo a individuo, si ricompone un’origine, un legame. La terra appunto, ha in qualche modo, l’umore di queste donne e uomini che vollero fortissimamente fondarvi qualcosa; il poeta richiamando il linguaggio degli antropologi difatti titola la prima sezione, Quartiere di lignaggio. Tutto questo esserci e permanere, si invera altresì nel nomen familiae, come elemento quasi di un’antropologia appunto della identità: «E io son lì sorridente o quasi / allibito / davanti al cartello stradale che introduce / a un villaggio, a un primo agglomerato / con il nome di, niente meno, / Casa Cucchi e poi mi informo. / […]».
Così come il lignaggio, anche il linguaggio viene costruendosi e cambiandosi nel corso dei secoli, quasi di essi ne sussuma quei larghi giri di fonemi sempre in movimento per l’aria. E con sorprendente gioco inverso però, Sabatino, personaggio caro al poeta e che si palesa nelle pagine, è ossessionato invece dalla ricerca di quel momento d’inizio vicino «all’afasia», da dove forse la parola prese spunto. Tutto questo, Cucchi ce lo dice dall’unico fronte che riconosce e ama, quello dell’incontro. Il cercatore è lì, con Sabatino ma anche con gli altri anonimi personaggi, nel vasto territorio, si sporca nel fango e quasi per attrito, il grande spirito delle generazioni che vi abita, gli va dentro e lo fa parlare con parole a lui del tutto in apparenza sconosciute.
Ma in questo libro sono tante le ricerche che avanzano di pari passo: quella, per esempio, sulla povertà e precarietà dei legami ed ecco allora ricomparire la traduzione della poesia così moderna, del grande scrittore francese duecentesco Rutebeuf ma anche quella su talune amicizie, che segnarono irreversibilmente il tempo di un rapporto dentro un territorio, nella sezione Dediche e devozioni. Ecco allora che memoria, è anche rievocazione di una relazione, magari ritraversando i punti cardinali della città di Milano. Lo sguardo si apre a uno slargo, riparte un sorriso, un dialogo, un ammonimento perduto: «Cammino, ancora un po’ trasognato, / nei tuoi luoghi in città, e dunque volta a volta / Fiori Chiari, San Gregorio, Fatebene – / fratelli, nell’attesa e nell’ansia / di vederti, chissà, magari spuntare / da un portone per un mio nuovo abbraccio. / […]».
Lo sviluppo davvero acuto in questo libro è però il rapporto che c’è tra emozione trascritta del vivere quotidiano e visione trasfigurata, anche e non solo, di tutto questo, nella dimensione del sogno. Quasi il poeta viva due vite, quella dell’osservatore diurno ma anche dello spettatore notturno di ulteriori visioni che portano in un luogo ambiguo che dà però nuove interpretazioni al vivere. Lì in quel tempo mediano, si riconosce o forse non si riconosce un individuo, uno spazio, tutto appare sì definibile ma al tempo immediatamente indefinibile. Ecco, per Maurizio Cucchi ogni cosa fugge nelle forme, nulla è immobile, nel sogno come certo nella realtà; ma anche nella sezione L’immagine, La parola dove il verso si sofferma nella descrizione emozionata delle opere dei grandi artisti del Novecento, l’autore sembra ancora suggerirci, che anche il colore immette in uno spazio onirico e al tempo pensante, dove il confine cromatico dei segni, delle forme, spinge l’osservatore a un punto di commozione e comprensione del reale, assolutamente nuovo e rivelatore. Ecco le suggestioni scaturite dall’opera Il Sacco, di Alberto Burri: «[…] / Lacerazioni dove si incrostano i residui / in tracce del quotidiano esserci, in una strana / geografia umilissima che allude, / che allude e insieme ci racconta, / racconta questo precario nostro sacco / di pensieri, di sentimenti e cose».
E poi infine dai colori della tela, ecco nell’ultima sezione, far capolino quelli del cielo, cinema in movimento dalle forme precarie e incerte, dove come osservatori di passaggi celesti, si è abbandonati a un senso di piccolezza e inquietudine ma anche di ricezione assoluta per il nostro essere, per chi sappia davvero recepire: «C’è chi si aggira con lo sguardo al suolo / e dunque a capo chino e chi invece / osserva diversamente il mondo / in cui si trova immerso e scruta, perlustra / lassù i disegni fantastici e insondabili / di minute particelle…/[…]».
Ecco, Maurizio Cucchi ci consegna con la Scatola onirica, un libro tra i più acuti degli ultimi anni, ove confluiscono anche talune poesie già pubblicate tra il 2021 e 2022 in altri volumi. Egli traversa, ancora una volta, l’aperto della vita intesa come continuo accadere, con parole che mantengono lo spessore della vibrazione, la commozione dello stupore, anche l’indignazione talvolta, per un corpo sociale che come diceva il suo caro amico e maestro, Giovanni Raboni, non è divenuto mai pienamente comunità. Un libro, mi si permetta, che contiene anche un invito, forse involontario, per tutti i lettori di vivere per ricercare; cosa? magari le tracce di un amore, un’amicizia, una parola, un viso perduto dietro una fotografia, un quadro, nella scia di un sogno. Non arrendersi in questa multiforme attività di scavo, l’unica che ci renda davvero degni costruttori di una memoria e quindi di una civiltà.