«Il piccolo principe attraversa il suo nuovo mondo e incontra un mercante d’acqua, che gli racconta di aver inventato una pillola contro la sete. “È una pillola straordinaria, se ne inghiotti una alla settimana non senti più il bisogno di bere e così risparmi, hanno calcolato gli esperti, cinquantatré minuti la settimana». Il piccolo principe, un po’ perplesso, chiede al mercante, “ma che cosa te ne fai di questi cinquantatré minuti?” Il mercante gli risponde, “ne fai quello che vuoi”. Allora il piccolo principe lo guarda e gli dice, “se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana…”». Detto questo, l’uomo dal grande cappello di paglia si fa taciturno, si avvicina lentamente alla fontana, allunga la mano, riempie un bicchiere di acqua e la beve con lunghi sorsi tranquilli.
Me lo vedo ancora Renzo Franzin, mentre compie quel gesto semplice e primordiale, ma così debordante di significati. Era il 2003, l’Anno internazionale dell’acqua, che ci aveva beffardamente riservato una siccità da far paura. Scomparso prematuramente due d’anni dopo, Renzo Franzin, giornalista, saggista, poeta e ambientalista veneto, era stato il fondatore e il direttore del Centro Internazionale della Civiltà dell’Acqua. (Vedi articolo correlato).
L’avevo incontrato, pensate un po’, a Sabbione, in quella Val Bavona devastata circa un anno fa, nel mese di giugno, proprio da questo elemento, tanto fondamentale per tutti gli esseri viventi quanto potenziale causa di immani catastrofi naturali. Chissà se c’è ancora, la fontana di Sabbione, e chissà se potremo tornare a dissetarci con la sua acqua limpida, rinnovando un gesto essenziale e vitale, non solo biologicamente, ma anche culturalmente, antropologicamente. Un gesto che esprime la volontà di ristabilire una gerarchia dei valori, privilegiando quelli semplici, autentici e primordiali.
Li stiamo perdendo, oggi, questi valori, come abbiamo perso la cognizione del legame genuino che ci unisce all’acqua. Per questo è importante che l’uomo si riappropri del vero rapporto con questo elemento, che sappia comprenderne la preziosità. In fondo non ci vuole molto, basta pensarci, all’acqua, oppure… ripensarla. È quanto hanno fatto, nel Duemila, i Comuni di Sessa e Monteggio, creando un percorso inteso a stimolare una riflessione sui rapporti tra l’uomo e l’acqua nel passato e nel presente, così come a valorizzare le testimonianze storiche e gli ambienti naturali presenti sul loro territorio. Nato per sottolineare l’inizio del nuovo millennio, lo hanno chiamato il Sentiero dell’acqua ripensata, nel senso di «pensata ancora una volta e pensata in modo nuovo, perché la conoscenza e la coscienza del passato e dei suoi rapporti con il presente consentono di affrontare in modo costruttivo un futuro che è già cominciato».
Il sentiero si sviluppa lungo buona parte del corso della Pevereggia, che mi dà il benvenuto con l’allegro scrosciare delle sue cascate, il cui millenario defluire ha smerigliato pazientemente il gradino roccioso, che separa la piana di Sessa da quella di Molinazzo di Monteggio, dove il torrente va a sfociare nella Tresa. La più alta, la Luèra, si getta nel Bùsen, una profonda gola che si apre ai piedi del Mulino Trezzini.
Alimentato dall’acqua della Pevereggia, che continua a scorrere nella roggia scavata nella pietra, l’antico mulino è ormai un guscio con le occhiaie vuote, ma i muri hanno ancora un’aria solida e un luccicante tetto in lamiera ne dovrebbe impedire il degrado. All’interno, alcune macine sono al loro posto, altre, ridotte in pezzi, giacciono sul pavimento. Si respira un’atmosfera intima e silenziosa, che alleggerisce il peso del ricordo di un’industriosità dignitosa ormai da tempo tramontata. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, per l’esattezza, da quando Bernardino Trezzini, l’ultimo mugnaio, fermava definitivamente la grande ruota.
Poco lontano, una curiosa costruzione s’innalza avvolta dalla vegetazione. È il Camino Baglioni, che ricorda l’effimera gold rush malcantonese, quando a Sessa e ad Astano si cercò di cavare qualche brancata d’oro dalle profondità della montagna. Il camino è la parte terminale del condotto che, partendo dalla Fonderia nella valle della Tresa, risaliva il ripido pendio e serviva a filtrare l’anidride arseniosa prodotta dalla lavorazione del materiale di scavo e dall’estrazione del prezioso minerale, attenuando gli effetti nocivi del gas per gli uomini e l’ambiente.
Il sentiero ora sale accompagnato dal suono costante del torrente e delle sue cascate. Un paio di tavole illustrate ricordano altrettante leggende del Malcantone, come La vendetta del pecoraio, che spiega ricorrendo al fantastico la formazione della gola della Pevereggia, opera dell’Arcangelo Gabriele, il quale, per vendicare il torto subito da un pecoraio per mano di un signorotto del luogo, sgretolò con la sua spada le rocce che trattenevano il lago di Sessa, le cui acque si riversarono nella valle della Tresa, lasciandosi alle spalle una piana limacciosa e malsana, «che restò così per diversi secoli fino alla bonifica».
Superata la gola, il percorso si fa più tranquillo e segue il margine meridionale della campagna, che si distende da Sessa fino al confine con l’Italia.
Incontro la vecchia latteria di Monteggio, costruita nel 1889 proprio lì in un angolo d’ombra accanto al torrente, di cui sfruttava l’acqua per raffreddare il latte e separarlo dalla panna, mentre la corrente della Pevereggia azionava la zangola per produrre il burro. Una giovane amazzone è assorbita dallo schermo dello smartphone, seduta in sella a un pacifico cavallo sauro con gli zoccoli a mollo, che mi guarda passare con aria pensosa. Continuo a seguire il ruscello, che scorre con un mormorio sommesso fra tappeti di Centocchio dei boschi. A volte l’acqua indugia in una pozza su cui chiazze di cielo galleggiano come brillanti ninfee. Ora la Pevereggia è uno strascico verdognolo e attraversa la zona protetta delle Bolle, toponimo che non lascia dubbi sulla natura del luogo. È un biotopo di notevole importanza naturalistica, brulicante di vita animale e vegetale.
Uscendo dal bosco, il sentiero abbandona il ruscello, che si indovina laggiù, nascosto da quella fila di alberi che taglia obliquamente la campagna. Lo sguardo prende fiato e si allarga su tutta la piana di Sessa. Una mandria di mucche sonnecchia attorno a due mangiatoie rigonfie di fieno, più lontano una macchia gialla di ginestre in fiore e un cavallo al pascolo, qualche stalla e, sul lato opposto, i villaggi di Suino, Bonzaglio e Sessa.
Poche centinaia di metri e mi ritrovo in un altro ambiente naturale umido, le Bollette, un’interessante nicchia ecologica piena di vita. Una folata di profumo invitante mi investe arrivando in uno slargo del bosco. All’ombra di grandi alberi, una famigliola si prepara al picnic piantonando una griglia su cui sfrigola non so quale prelibatezza.
Sono ormai a ridosso del confine e lì c’è Termine, con la sua chiesetta e lo strambo campanile, il vecchio lavatoio coperto e la fontana, alimentati da inizio Novecento dal piccolo acquedotto consortile, che aveva portato in paese quell’acqua così utile e preziosa per la gente e le bestie.
Il sentiero discende ora nel bosco e attraversa i vasti prati di Cassinone, un tempo ambiente paludoso, dove a metà Ottocento si estraeva la torba con cui si produceva carbone. Poi, nel 1878, arriva quel lungimirante ingegnere fatto da sé, progettista del ponte-diga di Melide, della strada dell’Onsernone e altro ancora, Pasquale Lucchini, che bonifica i terreni consegnandoli all’agricoltura.
M’imbatto nel valico di Palone, una dogana di cui ignoravo l’esistenza, messa lì a guardia di un vuoto da Far West, su cui aleggia un’immobile coperta d’afa.
Il percorso risale per poche decine di metri la collina di Sceré e riprende a scorrere più o meno pianeggiante verso Suino offrendo una bella vista sulla Piana di Sessa. Eredità, questa, dei ghiacciai, che ritirandosi quindicimila anni or sono hanno lasciato dietro di sé un lago, poi prosciugato quando una ciclopica frana (e non l’arcangelo Gabriele) ha aperto il varco del Bùsen e fatto defluire l’acqua verso la valle della Tresa.
All’improvviso m’imbatto di nuovo nella Pevereggia, ormai ridotta a poca cosa, che si intravvede appena nell’intrico verde di una valletta. A Suino imbocco via Fontanéta e via Alambicco chiari rimandi alla vocazione agricola del villaggio. E infatti dopo pochi passi mi ritrovo a camminare tra i filari ordinati di un paesaggio vignato dominato dal Cassinòtt, un vecchio edificio rurale, sorto nella prima metà dell’Ottocento accanto a un ruscello e a una sorgente di acqua potabile. Curiosi pali bianchi spuntano qua e là, con delle scritte, Paesaggi, Testimoni, Riflessi, Germogli, Fragranza e brevi commenti su biodiversità, colture, prodotti, interazione tra natura e agricoltura. Sono i pali indicatori di una campagna promossa dall’associazione Contadine & contadini svizzeri.
Sul coperchio di una vecchia botte, un’altra scritta evoca invece un messaggio più allettante e immediato I vini di Miriam, vendita diretta. Mentre addento un panino penso che un buon bicchiere di rosso non guasterebbe, in sua mancanza mi avvicino alla fontana scavata nel legno, congiungo le mani in un gesto semplice e primordiale e bevo una lunga sorsata di acqua chiara prima di riprendere il cammino.