Per ora la Cina sta vincendo la battaglia, soprattutto sull’opinione pubblica internazionale. Usa le vignette, i meme, ma anche le dichiarazioni ufficiali per dimostrare una cosa semplice: l’autoritarismo di cui ci avete sempre accusato, le pratiche di bullismo commerciale, gli strumenti punitivi sull’immigrazione, adesso siete voi a usarli. E in effetti, da quando è iniziata la guerra dei dazi del presidente americano Donald Trump, il 2 aprile scorso con quello che ha definito il «Liberation day», Pechino ha deciso di rispondere volta per volta a ogni aumento di tariffe da parte americana, fino a quando la leadership cinese non si è dimostrata «l’adulto nella stanza», la potenza responsabile: ha detto che non avrebbe reagito più a un gioco di azioni e reazioni. Era un bluff, naturalmente, perché la Cina ha risposto al 145% di dazi americani alle sue merci, con il 125% di dazi propri per le merci americane, dimostrando di essere in grado di mettere in pericolo l’economia americana, per esempio puntando a un’anonima svendita dei titoli di Stato – la Cina è il terzo detentore di debito pubblico americano. Perfino quando sul sito della Casa Bianca è apparso il dato secondo cui le importazioni dalla Cina verso gli Stati Uniti sono soggette a tariffe fino al 245 per cento, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Lin Jian ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano un commento: «Dovete portare questo numero alla parte americana per avere una risposta».
Pechino sta replicando al caos di Trump con una linea chiara e coerente: non vogliamo combattere questa guerra, anche se potremmo farlo. Quando l’11 aprile scorso l’America ha deciso di esentare dai dazi contro la Cina diversi materiali tecnologici cruciali, tra cui smartphone e hard disk, in molti hanno capito che la debolezza americana di fronte alla seconda economia del mondo è evidente, perché i grandi colossi tecnologici statunitensi come Apple, Microsoft e Nvidia di fatto dipendono dalla Cina non solo per le vendite, ma soprattutto per la produzione. Ma questo non ferma l’incertezza che si percepisce in Asia a causa delle nuove politiche della Casa Bianca. Se l’obiettivo primario di Donald Trump è il contenimento dell’economia cinese, il presidente americano nella sua caotica politica se l’è presa molto anche con altri Paesi asiatici, che adesso si trovano in una posizione sempre più complicata: i dazi sono sospesi per novanta giorni, e adesso è il tempo dei negoziati.
L’esempio più eclatante è quello del Giappone, che dipende per la sua difesa dall’America, e per questo ha stretti legami anche economici con il Paese – è il principale investitore straniero negli Stati Uniti. Ma a Tokyo sono stati imposti dazi del 24 per cento, una «punizione» faticosa da digerire, tanto che il primo ministro Shigeru Ishiba ha inviato subito il suo ministro per lo Sviluppo economico a negoziare, ancor prima di pensare a una rappresaglia. Anche il Vietnam ha scelto la via più facile, quella del dialogo: l’aliquota tariffaria «reciproca» del 46 per cento imposta da Trump sulle merci importate dal Vietnam è entrata in vigore il 9 aprile, ed è rimasta per poche ore, prima della riduzione/sospensione al 10 per cento per tutti.
Il leader vietnamita To Lam era stato uno dei primi a telefonare alla Casa Bianca per chiedere udienza, e Trump aveva accolto la preghiera con soddisfazione. Il Paese asiatico è un caso di successo economico, ma il suo equilibrio si regge sulla cosiddetta «diplomazia del bambù», e cioè con un metodo di flessibilità fra l’America e la Cina. Grazie a questa capacità vietnamita, per anni diverse aziende cinesi hanno investito in Vietnam e hanno beneficiato delle esportazioni da Ho Chi Minh City a dazi bassissimi verso gli Stati Uniti. E ora la leadership del Paese deve fare i conti con una decisione non facile: Washington chiede di eliminare le corsie preferenziali di cui godono le aziende cinesi in cambio dell’eliminazione dei dazi.
A metà aprile ad Hanoi è arrivato il leader cinese Xi Jinping, come parte di un già programmato viaggio nel Sud-est asiatico. Ed è proprio da lì, con un simbolismo notevole, che il presidente cinese ha fatto un discorso sull’apertura dei mercati che, secondo diversi analisti, è stato ascoltato anche da molti altri Paesi della regione: la Cina è una potenza responsabile e stabilizzatrice, ha detto Xi, ed è pronta a fare la sua parte. Alla tappa successiva in Malaysia, Xi ha ripetuto più o meno le stesse cose. Sono soprattutto i Paesi del Sud-est asiatico a sapere che Trump ha, in teoria, una finestra temporale al potere. Xi Jinping è leader senza limiti. Ed è forse anche per questo che all’ultima riunione dell’Asean, l’Associazione dei Paesi del Sud-est asiatico, i ministri dell’economia dei dieci Paesi della regione hanno deciso di «non imporre alcuna misura di ritorsione in risposta ai dazi statunitensi», perché «la comunicazione aperta e la collaborazione saranno cruciali per assicurare una relazione equilibrata e sostenibile».
Nel frattempo però, la Cina sta lavorando a un trattato di libero scambio con i Paesi Asean che potrebbe essere firmato prima del previsto. E sempre di trattati commerciali hanno parlato già all’inizio di aprile i rappresentanti dei governi di Cina, Giappone e Corea del Sud. Perché la politica «punitiva» americana va di pari passo anche a un potenziale disimpegno americano nel settore della difesa, e questo, per Paesi tradizionalmente alleati di Washington come Tokyo e Seul, è un problema difficile da affrontare. «Per cinque anni l’Amministrazione Biden ha lavorato alle alleanze. A Trump sono bastate due settimane per distruggere la fiducia», dice un diplomatico a Tokyo. Lo sa bene Taiwan, l’isola che la Cina rivendica come proprio territorio e che vorrebbe prendersi senza mai escludere l’uso della forza: anche contro le importazioni da Taiwan l’America ha imposto il 32 per cento di dazi, e per il Governo di Taipei – non riconosciuto ufficialmente dall’America né dalla maggior parte dei Paesi nel mondo – significa dover negoziare nelle retrovie, aumentare gli investimenti su suolo americano e cedere parte del suo principale asset strategico: la tecnologia e la produzione dei microchip. È una partita delicatissima quella che si sta giocando in Asia, che riguarda non solo il commercio ma anche la sicurezza. Trump sembra pronto a correre il rischio, ma la Cina sta già sfruttando l’occasione.