Sembra che Trump sui dazi abbia cambiato idea. Spaventato dal crollo delle Borse, ha fatto retromarcia, parlando genericamente di «pausa». Alla fine qualche legnata all’Europa finirà per darla. E con la Cina continuerà a fare la faccia feroce. Ma la reazione così negativa dei mercati ha fatto breccia nell’animo del presidente. Se invece deciderà di insistere su questa linea suicida, Trump rischia una grave sconfitta alle elezioni di mid term, tra un anno e mezzo. La forza degli Usa è innanzitutto nel loro sistema di alleanze, stipulate secondo la strategia dell’impero romano: diversi popoli, diversi patti; con gli Stati Uniti sempre in posizione di forza, grazie anche a quelle basi militari che parte dell’amministrazione Trump vorrebbe chiudere.
L’isolamento politico, militare, commerciale non è nell’interesse dell’America. I dazi sono un disastro, immediato e futuro. Immediato perché rappresentano di fatto una tassa sui consumi degli americani, destinata ad aumentare i prezzi e deprimere le Borse. Futuro perché una perdita di centralità dell’America nel sistema internazionale indebolisce la sua arma più formidabile: la guida della rivoluzione digitale. Certo, i dazi si applicano sul formaggio e sulle auto più che sui beni immateriali. Ma se gli Usa perdessero l’egemonia tecnologica e commerciale a vantaggio della Cina, dell’India, di un’Europa improbabilmente ma sperabilmente risvegliata, anche l’egemonia politica e culturale sarebbe a rischio. La rivoluzione del nostro tempo, da Internet all’intelligenza artificiale, è stata guidata dalla Silicon Valley. È una leggenda quella per cui i padroni della Silicon Valley sarebbero democratici convertiti al trumpismo; e non solo perché Bill Gates, a suo tempo, sostenne Bush junior. I padroni della Silicon Valley hanno solo deciso di fare politica in prima persona, senza l’intermediazione del partito e del leader al Governo. J.D. Vance è il loro «Manchurian candidate», l’uomo dalla bella storia personale che loro dirigono.
I dazi sono un modo di parlare a quello che Vance è stato: un «hillbilly», un esponente delle classi popolari legate alla vecchia economia produttiva, che l’autarchia di Trump vorrebbe rilanciare. Ma se tornano acciaierie e industrie automobilistiche, serviranno nuovi operai; e quindi nuovi immigrati. Come quelli che Trump fa deportare in catene davanti a fotografi e cameramen. All’apparenza i dazi non toccano quello che Vance è diventato, non danneggiano i signori della tecnofinanza che in lui si riconoscono. Ma alla lunga un’America che si isola è destinata a perdere la sua egemonia. Altro che America di nuovo grande. Se nell’era della globalizzazione un Paese che ha il 4% degli abitanti della Terra produce ancora il 26% della ricchezza mondiale, non è per via dei dazi. È perché attira le migliori intelligenze del pianeta, oltre a manodopera a basso costo. È perché ha convertito i popoli sconfitti in alleati. Ha basi militari ovunque. Conosce i dati di quasi ogni abitante del mondo. Ha il primato delle comunicazioni e delle informazioni.
È la fabbrica dei sogni e delle idee, nello spettacolo e nella scienza: se c’è un caso letterario, una serie tv, un’invenzione high tech, un vaccino o una medicina nuova vengono dall’America. Ed è inclusiva e aperta alle diversità. Nessuno di questi atout da solo è decisivo. Tutti insieme rappresentano un’arma formidabile: l’apertura al mondo. Forse non è un caso che il Nasdaq, l’indice delle aziende high tech, abbia perso più ancora del Dow Jones, quello dell’economia tradizionale. Perché si comincia dal vino e dall’acciaio, e si finisce con l’egemonia tecnologica, che oggi più che mai coincide con quella culturale, politica, economica, militare. Il potere più importante non è quello sui territori, ma sulle anime. Poi certo un’egemonia, un impero è anche un fatto di sopraffazione, una fonte di ingiustizie. Gli Usa sono il Paese più ricco del pianeta ma hanno il Terzo mondo in casa, il record del numero dei carcerati, milioni di poveri del tutto abbandonati a se stessi. I dazi vorrebbero parlare all’America profonda, ma Trump non intende affatto usare la leva fiscale per redistribuire la ricchezza o almeno assistere gli indigenti: la sua idea è che il welfare americano debba essere pagato dagli esportatori stranieri. Di fronte a tutto questo, l’Europa può fare poco. Restiamo in attesa.