«Quando Amnesty International (AI) è arrivata in Ticino, alla metà degli anni 70 del 900, molti Paesi dell’America Latina erano nella morsa della dittatura: il Brasile, il Paraguay, l’Uruguay, l’Argentina, il Cile… Anche altre realtà del cosiddetto Terzo mondo e dell’est europeo hanno visto l’avvento di regimi totalitari ferocissimi. Mobutu nello Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), Marcos nelle Filippine, solo per fare degli esempi. A seguire un’ondata di miglioramento. Ma adesso pare si stia verificando una regressione. Arrivano segnali inquietanti da tutto il globo, anche dai Paesi cosiddetti occidentali quali l’America. Per questo AI, purtroppo, continua ad esistere: i diritti umani non sono garantiti. A Gaza come in Ucraina. Lo slancio è sempre quello degli inizi, nonostante la rabbia e la frustrazione continuiamo a lavorare. Invece di demoralizzarci, il contesto ci sprona ad impegnarci di più».
A parlare è Piergiorgio De Lorenzi, 84 anni, ex docente a Lugano e Chiasso, tra i soci fondatori del Gruppo Ticino 48 di Amnesty International, che ha festeggiato 50 anni di attività. Il nostro interlocutore ripensa a quel periodo: «Il nostro messaggio era difficile da far passare in un contesto di Guerra fredda. Nessuno capiva bene come si potesse rimanere neutrali. O ti schieravi con il “primo mondo” – il cosiddetto mondo capitalista – oppure parteggiavi per il “secondo”, quello comunista, se però non tifavi per il “terzo mondo”, ovvero i Paesi in via di sviluppo. Abbiamo fatto una fatica tremenda a far capire il nostro punto di vista. Ovvero la difesa della singola persona: poco importa chi fosse, che ideologie avesse sposato, il suo genere, il colore della pelle o il suo credo… Si trattava di un essere umano e come tale aveva dei diritti inalienabili riconosciuti dalla legislazione internazionale. Questa idea era in un certo senso rivoluzionaria, anche negli ambienti che avrebbero dovuto essere più sensibili alla tematica…».
Insieme ai compagni di avventura Paolo Bernasconi, Dick Marty e altri, viene a sapere di AI e del primo gruppo svizzero attivo a Ginevra, un contesto «frizzante» anche per la presenza di molte organizzazioni internazionali. «Diversi dipendenti di quegli enti capivano il punto di vista di Amnesty – osserva – la difesa del singolo individuo, specie quello a cui nessuno presta attenzione. Abbiamo difeso anche i Mandela e i Sacharov, certo, però a noi interessava soprattutto il sacerdote cattolico incarcerato nel Vietnam comunista, la casalinga indonesiana sotto il regime di Suharto, il desaparecido cileno ecc.».
Per aiutarli – sottolinea l’intervistato – è necessario prima «studiare». Parte tutto da una segnalazione, che può arrivare in maniera inaspettata. De Lorenzi cita il caso degli uiguri, un’etnia turcofona di religione musulmana che vive nella regione autonoma del Xinjiang, nel nord ovest della Cina, perseguitati da Pechino perché ritenuti «pericolosi», dei sovversivi. «Le industrie farmaceutiche occidentali, anche svizzere, producono in Cina i test di gravidanza. Talvolta sono i prigionieri ad occuparsi degli imballaggi: qualche uiguro infila nella scatola, insieme al bugiardino, anche una richiesta di aiuto…». Comunque, la segnalazione avvia un lavoro di indagine certosino: AI raccoglie informazioni da ogni fonte disponibile, le incrocia e confronta più volte, per rendere il rapporto che infine viene stilato «inconfutabile». Prima di pubblicare il documento con accuse precise – aggiunge il nostro interlocutore – questo viene inviato alle autorità «incriminate» per una loro presa di posizione: «Se sta in piedi ne prendiamo atto, altrimenti la sconfessiamo». Questa procedura ha lo svantaggio di richiedere tempo. «La fretta non va di pari passo con l’accuratezza delle informazioni diffuse». In seguito si passa all’azione: lettere, chiamate, campagne sui media ecc.
Dalla sua fondazione nel 1974, il Gruppo Ticino 48 ha anche «adottato» oltre 40 prigionieri/e di coscienza, ottenendo per alcuni/e di loro la liberazione. De Lorenzi ci spiega come funziona: «Si chiede il dossier al Segretariato generale, ci si documenta in profondità sulla situazione del Paese e sulla persona da aiutare. Si inviano poi delle lettere alle autorità con l’intento di convincerle a cambiare rotta, perché è anche nel loro interesse». Per riuscirci ci vuole competenza, dice l’intervistato. «Non si tratta di scrivere cartoline di auguri. Si deve comprendere a fondo la situazione, cercare anche di mettersi nei panni di chi condanna, ricostruire il perché lo fa. Bisogna essere empatici, sia con le persone che si vogliono sostenere, sia con i loro aguzzini: nessuna presa in giro, non si deve mostrare disprezzo. È necessario essere furbi: per ottenere qualcosa e perché, in fondo, anche se di un farabutto si tratta, è un essere umano e in quanto tale va rispettato».
Altro elemento fondamentale: la creatività. «Bisogna inventare dei “trucchetti” per portare avanti la causa», racconta De Lorenzi. «Una volta abbiamo scritto ad Obama per un prigioniero di Guantanamo (carcere ancora oggi in funzione). Abbiamo deciso di usare un inglese shakespeariano (ma mandiamo gli scritti sempre in diverse lingue) in modo che chi avesse letto la lettera avrebbe pensato che lo scrivente fosse colto e importante, un vip insomma. Così è stato: i burocrati hanno mandato avanti la richiesta, forse perché non volevano prendersi la responsabilità di respingere qualcosa di grosso, e così via fin dove doveva arrivare: alla fine il detenuto è stato liberato». Pure la pazienza non deve mancare: non è infrequente che nessuno replichi all’appello. «Una volta però abbiamo ricevuto una risposta», ricorda l’attivista. «Avevamo scritto una lettera a Xi Jinping per un prigioniero di coscienza. Sul foglio mi era caduta qualche goccia di acqua di colonia, mi stavo facendo la barba. L’ho comunque spedita: un funzionario cinese mi ha risposto: “Grazie per il profumo”!».
Uno degli ultimi casi che il sottogruppo di Lugano ha preso a carico riguarda Ilham Tothi, un professore universitario di economia uiguro condannato all’ergastolo nel 2014 per separatismo, dopo un processo lampo, un’accusa che viene spesso utilizzata in Cina contro gli uiguri che si espongono in prima persona per denunciare le violazioni dei diritti umani nei confronti del proprio popolo. L’altro sottogruppo rimasto, quello di Bellinzona, ha «adottato» una giornalista russa in prigione per aver criticato l’operazione speciale di Putin in Ucraina. De Lorenzi ricorda anche importanti battaglie combattute sotto il vessillo AI, come quella contro il commercio mondiale di armi, per la parità tra i generi e quella contro le Pretoriali, le terribili carceri sotterranee che accoglievano le persone fresche di fermo di polizia nei vari distretti ticinesi. «Gabbie minuscole e disumane – spiega il nostro interlocutore – che sono state abolite nel 2006 in quanto ritenute inadeguate a ospitare detenuti e in contrasto con il rispetto dei diritti umani. Il Gruppo 48 ha contribuito al cambiamento, nonostante lo statuto prevedesse che le sezioni potessero segnalare le violazioni dei diritti umani avvenute nel proprio Paese ma non occuparsi delle ricerche o fare campagna direttamente. Con questa regola l’organizzazione intendeva proteggere i propri membri da possibili ritorsioni da parte delle autorità e mettere al riparo se stessa da eventuali interessi nazionali che avrebbero potuto compromettere la sua indipendenza (ora questa regola è applicata con minore rigidità). Quindi abbiamo dovuto chiedere ad un esterno – né ticinese né svizzero – di firmare il nostro rapporto che sconfessava le Pretoriali… E alla fine abbiamo vinto». Più delle battaglie, però, sono le persone ad essere rimaste attaccate alla memoria di De Lorenzi. Che non ha mai smesso di impegnarsi con tutte le sue forze: «Sono ancora attivo, questi sono incarichi a vita, specialmente perché non sono remunerati». Sorride.