Il pontefice con l’Amazzonia nel sangue

by Claudia

Ora che il mondo ha pianto molte lacrime per la scomparsa di Jorge Mario Bergoglio, usciamo per un attimo dal flusso delle emozioni e proviamo a capire perché papa Francesco è stato diverso da chi l’ha preceduto.

Anzitutto era un uomo del Sud, voce di tutti i Sud che osservano senza potere contrattuale i molti Nord, che siano l’America per i messicani o l’Europa per gli eritrei. «Voi capite poco del mondo – aveva spiegato a un gruppetto di giornalisti italiani all’inizio del pontificato – perché lo guardate dal centro. Per capirlo davvero bisogna osservarlo dalla periferia». Il suo osservatorio era tra la gente che arranca nei Paesi poveri, non tra i vincenti dei locali chic delle nazioni ricche.

Papa Wojtyla portava nel DNA il senso di accerchiamento del mondo cattolico da parte del Comunismo e Papa Ratzinger battagliava contro il relativismo che erodeva piano piano le fondamenta cristiane dell’Europa. I loro pontificati si sono perciò concentrati sulla lotta per la verità cattolica e contro l’errore dottrinale dentro e fuori dalla Chiesa. In modo diverso due Papi-filosofi preoccupati soprattutto dalle sfide culturali dell’Occidente secolarizzato.

Se però vieni dai Paesi in via di sviluppo le priorità cambiano. La filosofia va bene negli atenei, non nelle baraccopoli. Non riempi la pancia di chi ha fame col catechismo. Se la Chiesa vuole essere credibile, ci ha detto per dodici anni Francesco, non può occuparsi delle anime delle persone senza prendersi cura anzitutto dei loro corpi. La Chiesa bergogliana non è una «società dei perfetti» che espelle chi non si adegua alle sue direttive, ma un «ospedale da campo» che accoglie chiunque abbia bisogno senza pregiudizi etici o religiosi. «Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?», disse Francesco in volo sopra Rio de Janeiro nel 2013, aggiungendo: «Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di queste persone dicendo che non devono essere emarginate».

Bergoglio, poi, aveva l’Amazzonia nel sangue. Percepiva la foresta pluviale come quintessenza problematica della «Casa Comune» di tutti gli esseri viventi, Eden naturale minacciato dallo sfruttamento e abitato da popolazioni indigene a rischio d’estinzione. Viene da lì la sua battaglia ecologica (primo Papa a dedicare un’enciclica alla difesa dell’ambiente), inscindibile da quella per gli esseri umani «d’intralcio» e perciò espulsi dal sistema produttivo globalizzato. La sua è un’Ecologia umanistica in cui la prima specie da proteggere, tra farfalle, rettili e balene, è quella dei «sapiens» trascurati (o triturati) dalla macchina del profitto: vecchi, migranti, malati e civili di tutte le guerre. Bergoglio denunciava la cultura «dello scarto» contro cui ci si dovrebbe battere non perché si è cattolici, ma perché si è esseri umani che tutelano il cosmo e quindi il futuro stesso della propria specie.

Nella stessa logica – evangelica – è sempre stato dalla parte dei perdenti e non dei vincitori, delle vittime e mai degli aggressori: l’ultimo leader pacifista che si possa accostare senza imbarazzi a Martin Luther King o a Gandhi.

Se ne va come era arrivato, mettendosi un po’ di lato, lontano – per quanto è concesso a un Papa – dai centri del potere. Ha vissuto nel residence di Casa Santa Marta e non negli scintillanti appartamenti papali vaticani. E si è fatto seppellire non nella Basilica di San Pietro, apoteosi barocca del cattolicesimo, ma in quella di Santa Maria Maggiore sotto gli occhi di un’icona bizantina della Madonna a ridosso della stazione Termini, chiassoso crocevia di popolo: pendolari, studenti, turisti, famiglie e barboni. La gente che amava.