Trump e gli accademici in fuga

Gli Stati Uniti, un Paese da cui fuggire, anche soltanto a causa delle proprie idee o per il fatto di insegnare in un’università? Uno scenario strampalato e senza senso, perlomeno fino ad un paio di mesi fa. Eppure è proprio quello che sta capitando in queste ultime settimane. L’idea di lasciare la terra su cui domina Donald Trump sta diventando una realtà concreta con cui fare i conti, in modo particolare per chi studia e lavora nelle università americane. La causa di tutto questo sta nel pugno di ferro con il quale l’inquilino della Casa Bianca sta mettendo sotto pressione diverse accademie del suo Paese, accusate di antisemitismo e di promuovere nei propri piani di studio politiche ambientaliste, inclusive e troppo inclini alla diversità, razziale e di genere.

Trump è intervenuto d’imperio, tagliando una parte dei fondi pubblici annualmente versati a una quindicina di queste università, pubbliche e private. E minacciando di farlo anche contro altre accademie. Il caso più clamoroso è quello che riguarda Harvard, nei pressi di Boston, l’istituto superiore più antico del Paese, fondato nel 1636, ancora prima della nascita degli stessi Stati Uniti. Il presidente americano ha deciso di ridurre il supporto federale a questa università. Oltre due miliardi di dollari sono così stati congelati perché i vertici di questa accademia si rifiutano di piegarsi ai diktat di Trump. Malgrado una libertà accademica finora considerata sacrosanta, la scure presidenziale si fa sentire anche direttamente su alcuni professori, ricercatori e studenti. In queste settimane negli Stati Uniti ci sono persino stati degli arresti tra il personale accademico, in particolare tra chi aveva manifestato il proprio supporto alla causa palestinese. Senza contare che l’amministrazione Trump usa pure l’arma dei visti, tagliandoli, per impedire a studenti considerati «scomodi» di rimanere negli Stati Uniti.

Uno scenario non proprio in sintonia con i valori democratici e che al momento preoccupa e spaventa chi opera nelle università a stelle e strisce. Per questo motivo tra i professori e i ricercatori attivi negli USA, e tra loro ci sono anche numerosi cittadini elvetici, c’è chi sta pensando di lasciare gli Stati Uniti e di trasferirsi in Paese in cui la libertà accademica è ancora garantita. E la Svizzera da questo punto di vista è di certo una meta ricercata visto che alcune delle nostre università sono tra le più quotate al mondo.

In queste ultime settimane è emerso un diffuso interesse di questo tipo, senza che da parte dei vertici accademici svizzeri ci sia stata una particolare promozione della nostra piazza scientifica, contrariamente a ciò che sta capitando in altri Paesi europei e anche in Cina. Intervistata da diversi quotidiani d’Oltralpe, la direttrice del Politecnico di Losanna, Anna Fontcuberta i Morral, ritiene che il nostro Paese non si debba muovere con una campagna di promozione specifica.

A suo dire bastano la qualità degli studi e le possibilità di carriera offerte dalle nostre accademie, due carte di sicuro valore già ben conosciute anche oltre oceano. Sta di fatto che per la rivista «Nature» ben il 75% dei ricercatori che oggi lavorano negli Stati Uniti è pronto a trasferire armi e bagagli in un altro Paese occidentale.

Per la Svizzera si apre dunque una finestra di opportunità, in un momento in cui da questo settore giungono però segnali contrastanti. Da una parte il Consiglio federale ha annunciato di voler tagliare di poco meno di mezzo miliardo all’anno i fondi destinati al settore universitario, un fatto che rischia di scoraggiare chi è alla ricerca di mete scientifiche sicure. Dall’altra parte la Svizzera è stata riammessa nei programmi di ricerca europei, e questo con effetto retroattivo al primo gennaio di quest’anno. Il nostro Paese era stato escluso da questi programmi scientifici a causa della bocciatura da parte del Consiglio federale del cosiddetto «accordo quadro», sostituito ora da una serie di nuove intese bilaterali su cui presto il Parlamento, e in seguito anche il popolo, saranno chiamati a pronunciarsi. Un’apertura che accresce di certo le opportunità e l’attrattiva del mondo accademico elvetico.

Sempre in questo contesto, ma in ambito privato, va sottolineato che proprio la settimana scorsa il gruppo farmaceutico Roche ha annunciato un piano di investimenti pari a 50 miliardi di dollari e questo proprio negli Stati Uniti. Un’operazione cha va ad aggiungersi a quanto già previsto dalla rivale Novartis, pronta a investire negli USA altri 23 miliardi. Un piano d’azione che può di certo interessare anche il mondo accademico americano, in fuga dalla scure di Trump.

Tutto questo proprio in un momento in cui a livello politico il Consiglio federale sta concretizzando la sua strategia per contrastare la cascata di dazi commerciali che il presidente americano era pronto a far ricadere sul mondo intero, Svizzera compresa. Previsto da tempo, il viaggio a Washington, alla fine della settimana scorsa, della presidente della Confederazione Karin Keller Sutter e del ministro dell’economia Guy Parmelin aveva proprio l’obiettivo di presentare, se non direttamente a Trump, perlomeno a un paio di ministri del suo governo, la visione svizzera dei rapporti economici bilaterali.

Negli Stati Uniti il nostro Paese, con le sue aziende, ha creato finora quasi mezzo milione di posti di lavoro ed è tra i maggiori investitori, in particolare per quanto riguarda proprio il settore della ricerca e dello sviluppo tecnologico. Carte importanti da giocare sulle scrivanie dell’amministrazione USA e per cercare di ridurre, se non azzerare, le tariffe doganali minacciate da Trump. Stiamo dunque assistendo a una partita su più fronti che, a vario modo, coinvolge università, economia privata e mondo politico. Con Karin Keller Sutter pronta a dialogare di nuovo direttamente con Trump. Ma con un punto non irrilevante a suo sfavore perché, come lei stessa ha affermato, «Lui ha il mio numero di telefono, ma io non ho il suo».

Related posts

La voce del silenzio

Oriente contro Occidente

«La fame è un’arma di guerra»