L’insostenibile frattura tra Occidente e codice morale

Sebbene noi lettori non siamo, di norma, abituati a considerare gli scrittori moderni come figure le cui vite possano vantare tinte particolarmente eroiche o tragiche, il caso di Yukio Mishima (1925-1970) costituisce un esempio a dir poco eclatante: un moderno narratore giapponese – senz’altro uno dei più grandi che il Sol Levante possa vantare – il quale, proprio all’apice della carriera, decide di togliersi la vita tramite seppuku, l’antico suicidio rituale tipico dei samurai dell’epoca feudale. Non è difficile, quindi, immaginare come, a oltre mezzo secolo di distanza da quei tragici fatti, l’opera e la vita di Mishima esercitino tuttora un grandissimo fascino non solo entro i confini della sua patria, ma anche (e, in verità, soprattutto) in Occidente – come dimostra l’avvincente graphic novel dall’eloquente titolo di Mishima: Ultimo samurai, firmata da due autori italiani, Federico Goglio (testi) e Massimiliano Longo (disegni) per la Ferrogallico Editrice.

Qui, anche al lettore casuale basta un’occhiata alle tavole per rendersi subito conto del tratto distintivo dell’intero volume, ovvero la scelta, da parte degli autori, di lavorare su base fotografica, secondo uno stile che negli ultimi anni ha preso sempre più piede nell’universo delle graphic novel: quasi tutte le vignette costituiscono infatti una rielaborazione di una fotografia o ritratto di Yukio Mishima – il che, se da un lato permette una fedeltà pressoché assoluta ai particolari d’epoca della vicenda, potrebbe risultare vagamente destabilizzante per chi non sia abituato a una resa tanto ricca dell’immagine.

Lavorare in questi termini significa, in effetti, «scavalcare» uno dei concetti alla base della creazione fumettistica, vale a dire la scelta di un codice espressivo coerente tramite il quale reinterpretare la realtà; eppure, la natura aspra e malinconica di questo lavoro risulta valorizzata dalla visione di Longo – il quale combina l’inchiostrazione con un ricco ed espressivo tratto a matita, dando vita a un effetto coinvolgente, che richiama da vicino lo stile del compianto Sergio Toppi.

Certo, la decisione di sviluppare l’intera opera sul contrasto tra i toni monocromatici e vibranti della grafite e della china – quest’ultima stesa con tratti di pennino nervosi e scattanti – è indubbiamente impegnativa, dato che comporta l’obbligo di una pulizia assoluta del tratto; tuttavia, la mano di Longo rivela una sicurezza e disinvoltura invidiabili, infondendo così al volume atmosfere che, nel loro carattere inquietante e imprevedibile, sembrano preannunciare la tragicità dell’inevitabile epilogo.

Tutto ciò si accorda in modo impeccabile con la sceneggiatura di Goglio, il quale sceglie di mettere in atto una strategia narrativa dalla semplicità disarmante e, proprio per questo, vincente. Consapevole di come qualsiasi racconto incentrato sulla vita di un personaggio quale Mishima possa facilmente scadere nell’enfasi involontaria, egli sceglie di dipingere con grande delicatezza, tramite una voce narrante in prima persona, fatta di toni introspettivi quasi sussurrati e mai altisonanti, il conflitto interiore di Yukio, irrimediabilmente diviso tra il suo amore dichiarato per la cultura occidentale e la devozione assoluta all’Hagakure, il codice dei samurai – in un riflesso del contrasto tra l’attività artistica e «l’etica dell’azione» («il mestiere del samurai è la morte», avrebbe commentato lo scrittore).

Una sofferenza, quella di Yukio, quasi palpabile e destinata a combinarsi con una forma di grave insicurezza per generare una miscela fatale, nonché un errore a cui non poteva esservi rimedio: quello di credere che un sacrificio terribile come la propria immolazione (compiuta durante un’incursione negli uffici del Ministero della Difesa a Tokyo come comandante della Società paramilitare dello Scudo, da lui stesso fondata), avrebbe costituito un gesto sufficientemente forte da spingere i commilitoni giapponesi a scuotersi dal torpore per rendersi conto del fatto che il loro amato Paese aveva ormai perso ogni senso d’identità e autodeterminazione, precipitando in quello che Yukio definì come «vuoto spirituale» («È un bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito?» declama in tono di sfida ai soldati assiepati ad assistere al suo ultimo discorso, pochi minuti prima di dirigere la lama della spada su di sé nella scena madre di Ultimo samurai).

Quella di Mishima potrebbe sembrare una visione anacronistica, ma aveva avuto tutto il tempo di radicarsi profondamente in lui; e la graphic novel mostra questa lunga e terribile genesi in ogni sfumatura – dai suoi discorsi a favore dell’Imperatore, ricevuti tra fischi e schiamazzi dagli studenti di sinistra, alla crescente fascinazione per la natura marziale e priva di compromesso della vita militare, fino al senso di fratellanza avvertito nei confronti non solo dei propri seguaci, ma perfino dei piloti kamikaze del tempo di guerra; un lungo percorso che, infine, non fa che svelarci l’incredibile solitudine dalla quale lo scrittore si sentiva via via sempre più attanagliato, non solo come artista e pensatore, ma anche come uomo.

Forse, proprio in questa grande solitudine sta il segreto del genio di Mishima, come del terribile epilogo della sua vita: sebbene l’intera graphic novel scavi con ammirevole profondità nell’anima dell’autore — combattuta tra gli ideali imperiali e la modernità assoluta dei suoi romanzi, in una sorta di endemica contraddizione dalla quale non poteva esserci scampo — la perfetta simbiosi tra la narrazione di Goglio e la suggestiva espressività delle immagini di Longo lascia intendere come, sotto la superficie, ci fosse ben altro. Perché dietro le apparenze, là dove nessuno riuscì mai davvero ad arrivare, c’era un altro Mishima, teso verso una visione della vita che rivelava un animo entusiasta e aperto al mondo esterno; un cuore il cui anelito vitale non fu, purtroppo, sufficiente a vincere un senso del dovere dogmatico e onnipotente. La stessa persona che, la notte prima del suicidio rituale, quando tutto era ormai stato deciso e programmato secondo uno spietato copione, lasciò sulla propria scrivania, come ultimo messaggio, una poesia di struggente bellezza: «Una breve tempesta notturna soffia / dicendo “nel cadere è l’essenza del fiore” / precedendo coloro che esitano».

Forse l’unico, degno epitaffio, nonché il più veritiero, per un uomo che, proprio come l’ultimo dei samurai, non aveva mai esitato – nemmeno a costo della propria vita.

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