Tra India e Pakistan

L’hanno chiamata «Operazione Sindoor», dal nome della polvere rossa che le donne induiste mettono sui capelli il giorno del matrimonio e che viene cancellata il giorno in cui una donna rimane vedova. Operazione Sindoor, quindi, per vendicare tutte le donne e le ragazze (una si era sposata il giorno prima ed era in luna di miele) rimaste vedove a causa dell’attacco terroristico dello scorso 22 aprile a Pahalgam, in Kashmir. Quando un commando di terroristi ha ucciso 26 turisti, dopo averne identificato la religione. Agli uomini è stato chiesto di recitare la Kalima, la professione di fede musulmana, o di tirare giù i pantaloni per verificare se fossero o meno circoncisi: i non musulmani sono stati ammazzati a sangue freddo. Il massacro è stato rivendicato da The Resistance Front, un gruppo-facciata della ben nota organizzazione terroristica Lashkar-e-Tayyiba (LeT) con sede a Muridke, in Pakistan. La LeT e le sue affiliate sono ufficialmente proscritte sia in Pakistan che nel resto del mondo, ma continuano a operare indisturbate e protette dai servizi segreti e dall’esercito di Islamabad. L’«Operazione Sindoor» avrebbe colpito duro al cuore del Pakistan e delle sue organizzazioni terroristiche: nove missili lanciati su altrettanti campi di addestramento e centri di indottrinamento della LeT, della Jaish-e-Mohammad (JeM) e dell’Hizbul Mujahideen.

Nove missili lanciati non soltanto sui campi nella parte di Kashmir occupata dal Pakistan, ma anche sulle sedi principali di LeT e JeM: rispettivamente a Muridke e a Bahawalpur, che si trovano a pochi chilometri da Lahore. Il Pakistan ha reagito come di solito accade in questi casi. Prima negando, poi ammettendo la verità e, infine, ricorrendo a un argomento nuovo per Islamabad ma familiare al resto del mondo: non esistono campi terroristici in Pakistan, l’India ha deliberatamente colpito moschee e ammazzato civili innocenti. Peccato che a smentire il Pakistan siano stati proprio i terroristi: Masood Azhar, il capo della JeM, ha dichiarato di aver perso nell’attacco 10 membri della sua famiglia: non «civili» come sostiene Islamabad, ma terroristi quanto il loro padrino. La famiglia Azhar al completo gestisce difatti la JeM, che funziona come un’organizzazione di stampo mafioso degli anni Cinquanta. E il giorno dopo, sia a Muridke che nel campo Bilal nel Kashmir occupato, si celebravano in pompa magna i funerali dei combattenti della LeT alla presenza di alti figuri dell’organizzazione e di ufficiali dell’esercito pakistano e dei servizi segreti. Gli stessi ufficiali che, pochi giorni prima del massacro di Pahalgam, avevano accolto a Bahawalpur Khalid Qaddoomi, responsabile per l’Iran di Hamas, e altri quattro alti papaveri dell’organizzazione terroristica. L’intelligence indiana sospetta che l’incontro abbia riguardato la condivisione delle tattiche di attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che potrebbero aver ispirato l’attacco di Pahalgam. D’altra parte i «fratelli» di Hamas erano stati segnalati in Pakistan già lo scorso febbraio quando, in occasione di una conferenza intitolata Kashmir Solidarity and Hamas Operation Al Aqsa Flood tenutasi nello stadio di Muzaffarabad, dividevano il palco con vari membri di LeT, JeM, politici locali e alti ufficiali dei servizi segreti e dell’esercito. Vale la pena notare che il quartier generale di JeM a Bahawalpur si trova a otto chilometri da una base militare.

E che da anni, da quando cioè il Governo indiano ha cancellato lo status speciale del Kashmir, il Pakistan tenta di far rivivere e internazionalizzare la ormai defunta «questione del Kashmir» e di costruire similitudini azzardate tra lo Stato indiano e Israele e tra il Kashmir e Gaza: visto soprattutto che i kashmiri indiani sono scesi in piazza dopo Pahalgam a protestare non contro il Governo ma contro i terroristi. La narrativa adoperata dai terroristi di Pahalgam, difatti, la strage di vittime su base etnico-religiosa e la definizione di «coloni» appiccicata alle vittime della strage, coincide con la narrativa di Hamas. E dimentica che lo stesso Pakistan è stato fondato nel 1947 su base religiosa da «coloni» provenienti da ogni parte dell’India. L’«Operazione Sindoor» è stata seguita da una guerra di disinformazione a mezzo stampa e social media, e da pesanti bombardamenti pakistani sui civili dei villaggi indiani al confine tra le due Nazioni. Ed è stata annunciata in conferenza stampa e coordinata da due ufficiali donne dell’esercito indiano: la colonnella Sophia Qureshi e la comandante di brigata Vyomika Singh. Due donne anzitutto perché, secondo la teologia jihadista, non vai in paradiso se vieni ucciso da una donna. E per marcare ancora una volta la differenza tra un Paese in cui le donne comandano squadroni e mandano navicelle spaziali sulla Luna e una Nazione che protegge, difende e usa come strumenti di politica estera i portatori di una medievale ideologia di morte per cui le donne sono invece da cancellare.

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