Ci sono libri fotografici che documentano. Molti autobiografici. Altri che interrogano… Whiteness in Černobyl, opera del luganese Marco Cortesi (collaboratore di «Azione»), appartiene a un’altra specie: quella delle elegie fotografiche. Nessuna retorica post-atomica, pur trovandosi nella terra della mai dimenticata catastrofe nucleare del 26 aprile 1986 (l’anno prossimo fan quarant’anni); nessun romanticismo da rovina. C’è, piuttosto, una sospensione. Come se la macchina fotografica si fosse trasformata in uno strumento capace di registrare non ciò che è o accade, ma ciò che permane di un tempo andato, come una eco fossile. L’approccio di Cortesi risulta essere infatti pulito, geometrico, quasi trattenuto. Non c’è pietismo né fredda distanza. È così sin dalla copertina che si fa dunque manifesto e metafora: dice del rigore compositivo e dell’intento anti-pittoresco di tutto il lavoro. Cortesi non cerca la bellezza, ma non la fugge. Piuttosto, la accomoda nell’essenziale, come a rimarcare che anche nell’abbandono vive un ordine che non consola.
La bianchezza annunciata dal titolo, infatti, non ha che fare con un bianco sterile, né cerca di rievocare quello lirico delle nevi vergini. È un bianco contaminato, sintomo di una cancellazione più che superficie spolverata, non un nascondimento ma ciò che rende visibile l’invisibile: la vulnerabilità strutturale della presenza umana. È un bianco che satura.
Tra gli scatti si intuiscono un laboratorio radiologico e una palestra abbandonata, corridoi, una scuola di musica (lo dice la didascalia), il locale della posta con la trombetta disegnata sul muro; ma non è l’oggetto che conta. Non è la poltrona senza cuscini, non è il vetro rotto. È la postura che li ha raccolti. L’inquadratura non cerca l’enfasi, ma l’equilibrio. Lo si capisce subito dalla presenza dello sguardo che è dentro, ma in punta di piedi. Ed è forse questa la cosa più riuscita del libro: il far sentire parte di qualcosa che si sarebbe forse preferito tenere distante da noi.
Il formato, la cura editoriale, la rilegatura a spirale, la stampa in bicromia e limitata nelle copie, persino la scelta di usare una Leica Monochrom, sembrano tutte scelte che parlano lo stesso linguaggio: non estetizzare il trauma, ma fissarlo con rispetto. Come si fa con certe assenze. La neve, d’inverno, contribuisce a questa estetica della conservazione. Attutisce, cancella, rende ogni cosa ancora più bianca. Ma non più pura. Non più innocente. La neve, qui, non assolve.
A Pripjat – città ridotta a teatro senza spettatori – l’autore si muove come un visitatore rispettoso; non è il voyeur dell’urbex, non è il pellegrino della rovina. È piuttosto un cartografo emotivo, intento a mappare ciò che la memoria collettiva ha già quasi espulso: il quotidiano spezzato, le aule spoglie, gli strumenti medici lasciati a metà gesto.
L’assenza umana non è un’assenza pacifica: è un’assenza del dopo panico. Un’assenza interrotta. Si fa qui testimonianza, ma non didascalica. Perché, in verità, le immagini non illustrano la catastrofe: la evocano, la inseguono nella forma dei corridoi deserti, negli oggetti rovesciati, nelle finestre che riflettono il nulla. Un nulla che però non è sinonimo di un vuoto. Un nulla che ha una sua specifica densità. Un pieno fantasmatico che fa pensare, più che al disastro stesso, a quel che è venuto dopo: la rimozione, il silenzio, la mutazione dell’immaginario.
Se la prefazione di Stefano Agustoni richiama il concetto di Antropocene come epoca dell’incidente in differita, le fotografie di Cortesi fanno della zona di alienazione un luogo esatto per misurare tale rottura. Ogni scatto si pone come un «sintomo paesaggistico», per citare Georges Didi-Huberman: «I luoghi parlano, ma non parlano con una sola voce».
È qui che Whiteness in Černobyl (www.whiteness.ch) si fa opera impegnata: non perché lanci accuse o cerchi colpevoli, ma perché obbliga chi guarda a una responsabilità. Non si può sfogliare questo libro senza lasciarsi interrogare. Non si può archiviare con leggerezza. È un libro che resta. Che coltiva la riflessione sul rapporto tra uomo e spazio, tra storia e oblio. Che non offre risposte, ma costruisce una narrazione aperta. Che non documenta, ma interpella, che non mostra, ma suggerisce…