Gorizia e Nova Gorica: cultura senza frontiere

Paese che vai, confine che trovi. Tuttavia ogni linea di demarcazione fa storia a sé. È come una spugna che, a spremerla, lascia fuoruscire i rapporti sedimentati da secoli, fatti di contatti amichevoli come pure di conflitti incancreniti, trasmessi immutati da una generazione all’altra. Le nostre società sono attraversate da un reticolo di confini tracciati per le ragioni più varie, per delimitare una proprietà privata o per marcare una differenza sociale. Ma il confine più visibile e tangibile è quello che va sotto il nome di frontiera: è qui che si penetra in un mondo diverso, uno spazio in cui le norme che regolano la convivenza possono assumere forme radicalmente aliene, dalla circolazione stradale alla valuta, dalla lingua alla confessione religiosa ecc.

Chi risiede in Ticino sa che la frontiera è la rappresentazione plastica del moto perpetuo, un vibrafono che registra e restituisce il suono, vale a dire gli umori dei territori e le decisioni prese a Berna e a Roma. Suoni lieti ma anche sordi, che la frontiera assorbe, facendosi di volta in volta confine-ramina, confine-filtro, confine-cerniera, un’alternanza di chiusure e aperture, come ben sanno i profughi che ogni giorno chiedono asilo. Ecco quindi nascere la «preoccupazione nella popolazione» (le autorità ricorrono spesso a quest’espressione) come se i migranti fossero tutti dei potenziali delinquenti o spacciatori, e non persone (spesso famiglie con minori) in fuga da guerre o da regimi oppressivi.

In molti Paesi la frontiera ha assunto le sembianze di una muraglia sormontata da lunghi filari di filo spinato. Tutt’intorno pattuglie armate, garitte e sensori sorvegliano l’area giorno e notte. Ma la tentazione di presidiare militarmente il confine per renderlo impenetrabile risale alla notte dei tempi. Tutti ricordiamo il muro di Berlino, ma prima di questa ben nota e traumatica iniziativa ce ne furono altre lungo la cortina di ferro ch’era calata sul Continente dopo la Seconda guerra mondiale. Tra queste meritano attenzione le divisioni che interessarono Trieste e Gorizia dopo il 1945, allorché queste città divennero terreno di scontro tra gli angloamericani da una parte e la Jugoslavia di Tito dall’altra. Una contesa poi cementata dalla logica dei blocchi est-ovest, fino alla dissoluzione della Federazione jugoslava, che coinvolse comunità intere, partiti e movimenti, associazioni, sindacati e giornali, finendo per avvelenare gli animi anche di chi perorava la causa di una convivenza interetnica pacifica, fondata sulla tolleranza e la collaborazione. E invece si andò per le spicce, senza alcun riguardo per la storia e le usanze locali. In televisione circolano ancora documentari in cui militi armati di secchio e pennello tracciano senza criterio alcuno strisce bianche su strade e campi, scompaginando relazioni socio-economiche e troncando legami affettivi. A Gorizia, osserva lo storico Raoul Pupo, «il nuovo confine è un mostro. La stazione della Transalpina è tagliata a metà dal reticolato, in periferia la linea attraversa una stalla, lasciando la mucca da una parte e il mungitore da quell’altra». Nel frattempo Tito aveva fatto costruire dall’altro lato Nova Gorica, città-vetrina del nuovo ordine socialista, completata nel 1974.

Il collasso del socialismo reale ha provveduto a riaprire le porte anche in questa mini-Berlino nel nord-est italiano. I valichi sono stati riaperti, le reti metalliche smantellate, le arcigne e occhiute guardie trasferite altrove. Consegnato al passato il regime titino, i rapporti sono tornati cordiali, anche se la libera circolazione della manodopera (che qui va sotto la voce «lavoratori transfrontalieri») ancora deve fare i conti con disfunzioni di natura fiscale e previdenziale (come tra il Ticino e la Lombardia).

Tutta questa vicenda non è stata archiviata ma pare in qualche modo superata, soprattutto tra le giovani generazioni. Quest’anno Gorizia e Nova Gorica si sono strette in un abbraccio sotto le insegne di prima capitale europea della cultura transfrontaliera, progetto sostenuto dall’Unione europea. Scandisce l’anno un ricchissimo calendario di manifestazioni: concerti, teatro, cinema, mostre, raduni popolari, festival, di qua e di là dell’ormai dismesso steccato politico-ideologico. Come dicono in quest’angolo del Friuli con compostezza austro-ungarica: «Uniti per separare la vera arte e la cultura da copie e approssimazioni a buon mercato. Per aiutare le persone a conoscersi e vivere meglio».

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