I quattro Moschettieri hanno lasciato il segno

Si è parlato a lungo, nelle scorse settimane, del rifiuto degli spadisti svizzeri di rendere omaggio alla bandiera e all’inno di Israele. Agli Europei under 23 di Tallinn, in Estonia, il quartetto rossocrociato aveva conquistato la medaglia d’argento alle spalle dei coetanei israeliani. Va detto subito che i nostri atleti si erano congratulati con i loro rivali. Il gesto proposto sul podio ha tuttavia suscitato un putiferio. Senza mezze misure, si è passati dalle lodi per il coraggio e la coerenza dei nostri atleti, all’indignazione per aver mescolato politica e sport.

Quest’ultimo assunto, lo dico con un pizzico di nostalgia, appartiene a un passato romantico da tempo sepolto. Da anni, lo sport è visceralmente invischiato nella politica. Anzi, lo sport è politica. Restando a Tallinn, vi siete chiesti come mai non c’era la squadra russa? Semplicemente perché dal febbraio del 2022, da quando l’esercito di Putin ha invaso l’Ucraina, lo sport russo è stato messo al bando. Che colpe hanno i giovani atleti russi che hanno dedicato l’infanzia e l’adolescenza alla formazione, per costruirsi una carriera da campioni?

In compenso, a Tallinn, come a tutte le manifestazioni europee, partecipano gli atleti israeliani. Vi risulta che Israele si trovi in Europa? Chiaramente no. Ma ciò avviene poiché nel contesto asiatico molte nazioni si rifiutano di sfidare squadre o atleti che si presentano sotto le insegne della stella di Davide. Non è una scelta politica, questa? Che dire poi del boicottaggio dei Giochi Olimpici di Mosca nel 1980, da parte degli Stati Uniti e dei Paesi vicini alla Nato? Una scelta campata per aria? No, fu la reazione, dell’allora presidente USA Jimmy Carter, all’invasione sovietica in Afghanistan, avvenuta pochi mesi prima. Vogliamo parlare della rappresaglia messa in atto quattro anni dopo dal blocco sovietico, che non si presentò all’edizione di Los Angeles? Fu una pura e semplice scelta politica. Konstantin Černenko non aveva alcuna ragione oggettiva per replicare. Nell’Unione sovietica si inventarono che, in California, la loro delegazione non avrebbe potuto beneficiare di adeguate condizioni di sicurezza.

Lo sport, piaccia o no, è usato dai potenti come strumento di propaganda e come manifestazione spinta dell’identità nazionale. Fra le edizioni dei Giochi Olimpici che ho potuto seguire sul posto, quella del 2014 a Sochi è stata la più vergognosa. Per i miliardi investiti dal regime di Vladimir Putin nella costruzione di cattedrali nel deserto, atte a celebrare la sua gloria e la sua potenza. Vergognosa anche e soprattutto per il controllo militaresco al quale tutti noi siamo stati sottoposti. Le porte dei bus che ci trasportavano sui luoghi di gara venivano sigillate col piombo da soldati in assetto di guerra. Sembrava di vivere in prossimità del muro, nella ex DDR. Sei anni prima, a Pechino, si ebbe la sensazione che ogni giornalista, ogni cameraman, ogni tecnico, ogni ospite, avesse costantemente alle sue spalle una sorta di angelo custode. Per proteggerlo? Magari, non saprei, e non lo escludo. Di certo per evitare che ficcasse il naso, là dove sarebbe stato saggio lasciar perdere.

Lo sport, può essere persino più potente ed efficace di un summit fra leader politici, e può fungere da molla con la quale costruire una carriera politica. Negli anni Settanta, la distensione tra Stati Uniti e Cina era stata alimentata da una partita di ping pong.

Georges Weah, da Pallone d’oro a Presidente della Liberia. Arnold Schwarzenegger, da Bodybuilder a Governatore della California. Più recentemente, Vitalij Klyčko, ex pugile, campione del mondo dei pesi massimi, è diventato sindaco di Kiev e braccio destro di Volodymyr Zelens’kyj. Sono solo tre esempi fra mille. Non saprei dire se è la politica che sa sfruttare abilmente la forza dello sport, o viceversa. Sono per contro convinto del fatto che i due ambiti vivano una relazione incestuosa. In entrambi, la posta in gioco è elevatissima, sia in termini di legittimazione del sistema politico, sia in termini finanziari.

In questo scenario, i veri protagonisti, gli atleti, vengono spesso censurati. A loro non è concesso esprimere un parere. Prima che sportivi, sono esseri umani, con cuore e testa. In un contesto così complesso, e così compromesso, il timido, gentile, silenzioso gesto dei quattro spadisti svizzeri suona quasi come romantico.

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