Un libro che è un affresco di dolore, verrebbe da dire. Come d’altronde si conviene a quel presunto Martire! del titolo (al netto del punto esclamativo, sospeso tra ironia e perentorietà), che rappresenta anche lo status cui ambisce Cyrus Sham, protagonista del romanzo di Kaveh Akbar.
La polifonia di voci che compone la prima opera in prosa del suo giovane autore (al pari del protagonista, nato in Iran, ma portato negli Stati Uniti quando ancora piccolo), è una stratificazione di voci intrecciate che si rincorrono sull’intricata superficie di proiezione della vita, speculare a quella dell’Iran; un Paese in cui, dalla Rivoluzione, le storie intrise di poesia e di profumi, sangue e redenzione di secoli di cultura sono costrette a convivere con la storia della sopraffazione sistematica da parte del regime.
L’ascesa degli ayatollah al potere non è stata solo una virata di destino e destinazione di un popolo, ma anche la negazione, oltre che di tutto ciò che era avvenuto prima, del presente. Proibito amare, proibito scegliere chi amare, proibito a questo punto forse perfino sognare. Ed è forse proprio per questa diffusa assenza di una prospettiva a lungo termine che Alì, da poco rimasto vedovo (la moglie Roya è morta per un incidente aereo causato da un errore degli americani), decide di lasciare il proprio Paese natale per gli Stati Uniti con il figlioletto Cyrus. A casa del nemico, forse, ma con un lavoro sicuro e umile quanto può esserlo un impiego in un allevamento di polli.
Cyrus si laurea a pieni voti, ma non solo. Riesce a diventare un apprezzato poeta, ma non solo. Si fa amare, ma non riesce mai a essere all’altezza dell’amore altrui. Alla radice di questa incapacità – che lo porterà a diventare alcolista e a portarsi dentro una disperazione sottile, proprio come Kaveh Akbar – vi è sempre la frattura originaria, con la perdita della madre, mai conosciuta, e con una patria, amata visceralmente, ma anche compianta, in cui ancora vive un pezzo di famiglia, uno zio che sui campi di battaglia si presenta vestito da angelo della morte. L’unico appiglio che impedisce a Cyrus di sprofondare in un baratro fatto di perenne assenza e straniamento è dato dalla lingua materna, cullata e coltivata, testimonianza di un tempo lontano forse privo di peccato.
Gli Stati Uniti, se non altro, sono il laboratorio ideale per la rielaborazione di un’identità combattuta, forse meno per la ricerca di un senso esistenziale. Per questo, e per il desiderio che fa da fil rouge a tutto il libro, ossia chinarsi sul martirio e studiare la morte, a un certo punto Cyrus andrà a New York, intenzionato a conoscere l’artista iraniana Orkideh. Quest’ultima, in quello che pare un sentito (e dichiarato) omaggio all’arte di Marina Abramovich, all’interno di un grande museo offre i propri ultimi giorni di vita al pubblico, incontrandolo e parlandogli, in una condivisione del processo di morire che saprà dapprima attanagliare Cyrus e poi rendergli una sorta di pace.
Cyrus cerca Orkideh: e parlandole, soffrendoci, nel dolore dei silenzi, ma anche di una cultura da entrambi abbandonata per sempre, riesce paradossalmente a ricomporre un’identità che fino a quel momento era parsa solo un groviglio inestricabile di sensazioni disordinate, frammentate, che non avevano idea della direzione da prendere.
È intenso, il linguaggio di Akbar, e con semplicità gli riesce di trascinare il lettore in mondi complessi, rimbalzandolo tra disperazione e speranza e inducendolo a pensare, attraverso Cyrus, a se stesso e a cosa significhi la parola «io», in un senso più intimo e all’interno di un contesto. Una prospettiva sul concetto di passato e di senso della vita dalla forte carica trascendentale, qualità che ha certamente aiutato questo intenso libro a essere fra i finalisti del National Book Award e fra i migliori libri del 2024 del «The New York Times Book Review».