Il giorno prima dello storico incontro fra America e Cina ospitato nei pressi di Ginevra, la presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter – con una punta d’ironia – ha fatto un riferimento di natura spirituale, auspicando che lo Spirito Santo «arrivasse» a Ginevra nel fine settimana del vertice, dopo essere stato, a suo dire, «presente a Roma» per l’elezione al soglio pontificio dell’americano Robert Prevost. Keller-Sutter aveva offerto subito di ospitare un round di negoziati tra le prime due economie del mondo: la Svizzera ha ottimi rapporti bilaterali sia con Washington sia con Pechino, ma è stato soprattutto dopo il famigerato «Liberation day» del presidente americano Donald Trump, cioè il giorno in cui la guerra dei dazi globale è iniziata, che il Governo elvetico si è fatto promotore di un negoziato per allentare le pressioni sui mercati globali. Alla fine il vicepremier cinese per l’economia, He Lifeng, il segretario al Tesoro statunitense, Scott Bessent, e il rappresentante per il Commercio, Jamieson Greer, si sono dati appuntamento in una lussuosa villa su una collina a Cologny, vicino Ginevra, residenza dell’ambasciatore svizzero all’Onu, Jürg Lauber, che per sapienza del destino quest’anno è stato eletto anche presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
I negoziati fra Washington e Pechino sono durati due giorni e si sono conclusi con l’annuncio di una tregua sui dazi di novanta giorni e l’inizio di nuovi negoziati più specifici, dettagliati, con l’obiettivo di mettere fine a una guerra commerciale che stava rischiando di diventare troppo grande e articolata (anche se per molti analisti sarà difficile, dopo tale bufera, tornare alla normalità). Le tariffe Usa sulle importazioni dalla Cina sono scese così dal 145 a circa il 40%, mentre i dazi cinesi, aumentati in reazione a quelli di Trump su alcune importazioni dall’America, sono passati dal 125 al 10%. La Casa Bianca ha esultato: tutta la comunicazione successiva a quel vertice è stata costruita per mostrare l’ennesimo successo di Trump nella sua strategia di dazi temerari, che servono in realtà a far accettare a tutti i Paesi condizioni più favorevoli all’America. Dal punto di vista cinese, però, le cose non stanno esattamente così. Per esempio, Pechino ha più volte sottolineato che ad aver invitato in Svizzera i rappresentanti della leadership è stata proprio la Casa Bianca – mentre nella narrazione americana è importante dimostrare il contrario, e cioè che i leader degli altri Paesi vogliono correre a trovare un accordo con Trump.
Secondo la ricostruzione di alcuni media americani, il dialogo fra America e Cina è iniziato con un incontro segreto nel seminterrato del palazzo di Washington DC che ospita la sede centrale del Fondo monetario internazionale (FMI), a pochi minuti a piedi dalla Casa Bianca. Il ministro delle Finanze e rappresentante cinese nel Consiglio dei governatori della Banca Mondiale, Lan Fo’an, era al FMI per la riunione di primavera, e il suo omologo americano, Scott Bessent – rappresentante di una corrente più pragmatica dell’amministrazione, soprattutto sulla Cina – lo aveva incontrato di nascosto per organizzare i colloqui. Nelle stesse ore Trump, che alla Casa Bianca stava incontrando la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, aveva quasi rivelato ai giornalisti l’esistenza di contatti segreti tra Usa e Cina parlando di «colloqui in corso», rischiando di mandare a monte la possibilità di un vertice.
In Svizzera la leadership cinese di Xi Jinping ha mandato il suo negoziatore capo, He Lifeng. Per il settantenne e confidente di lunga data di Xi, il vertice con Bessent è stata la prima prova ai massimi livelli della diplomazia. Ha infatti sostituito una vecchia conoscenza dell’America, Liu He, andato in pensione l’anno scorso. Secondo chi lo conosce da tempo, He Lifeng si è occupato per anni dello sviluppo economico cinese, ed è un osso duro che aderisce completamente alla politica burocratica del Partito comunista. Negli ultimi mesi ha trascorso molto tempo con investitori stranieri, ed è uno strenuo difensore della sovraccapacità industriale cinese, cioè della capacità della Cina di produrre più di quanto sia in grado di assorbire con i consumi interni, creando per conseguenza surplus commerciali con qualunque Paese sia in grado di importare. Da rigido burocrate che non si discosta dalle dichiarazioni preimpostate del Partito, He Lifeng si è progressivamente mostrato più amichevole, soprattutto con gli uomini d’affari stranieri.
Sebbene quello che è stato definito un cessate-il-fuoco fra le prime due economie del mondo nella guerra dei dazi sia soltanto temporaneo, i mercati per ora ne hanno in parte beneficiato, e per le grandi aziende che lavorano fra America e Cina ora il pericolo si ripresenterà ad agosto. Nel frattempo, però, potrebbe succedere di tutto. Pochi giorni dopo il vertice di Ginevra, l’Ufficio per l’industria e la sicurezza americano, quello che sovrintende ai controlli sulle esportazioni, ha fatto sapere di aver messo in atto un approccio molto restrittivo nei confronti dei microchip che servono per la creazione di prodotti per l’Intelligenza artificiale, e ha soprattutto sottolineato che «l’utilizzo di chip Huawei Ascend», cioè il miglior prodotto del colosso cinese del tech, «in qualsiasi parte del mondo viola i controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti». Poche ore dopo, un editoriale pubblicato dal «China Daily», quotidiano in lingua inglese di proprietà del Dipartimento centrale della propaganda del Partito comunista cinese, avvertiva: «L’opportunità di stabilizzare le relazioni economiche e commerciali bilaterali rischia di essere sprecata dagli Stati Uniti».
In più, c’è da gestire la politica internazionale, quella slegata al commercio: il 9 maggio, nelle stesse ore dei colloqui in Svizzera, il leader Xi Jinping sedeva alla destra del presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, nella Piazza Rossa di Mosca per la parata militare del «Giorno della Vittoria», la ricorrenza con cui si celebra la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista nella Seconda guerra mondiale. È l’immagine di un’intesa che sfida l’Occidente, costruita sulla memoria storica e orientata al futuro. Un messaggio chiaro a Washington, Bruxelles e agli altri alleati, trasmesso dal cuore di Mosca.