Sesso e solitudine secondo Tracey Emin

by Claudia

A Firenze Palazzo Strozzi dedica un’importante personale all’artista britannica

Ha una voce sottile e armoniosa Tracey Emin, vibrante di ironia e di tenerezza malgrado la sincerità spiazzante del suo modo di raccontarsi che rende l’incontro con questa celebre artista britannica, a Palazzo Strozzi a Firenze, frizzante e al tempo stesso affettuoso.

Prologo importante perché la sua mostra: Tracey Emin – Sex and Solitude, curata da Arturo Galansino, è la personale più ampia che le sia stata dedicata in Italia sino ad oggi, e lei stessa ha voluto scegliere le sessanta opere esposte, tra quelle storiche e quelle più recenti, non per ripercorrere le tappe della propria carriera dagli anni 90 a oggi, ma piuttosto per seguire le linee tortuose tracciate dalle sue scelte di donna e di artista recentemente insignita da Re Carlo III, del titolo di «Dame» come riconoscimento dell’importanza della sua carriera, e del suo contributo all’arte nel proprio Paese, anche per aver creato un progetto di residenze per giovani artisti a Margate, nel Kent, dove la sessantaduenne Tracey Emin vive e ha un suo atelier.

Il percorso espositivo della mostra è diviso in sezioni che sembrano i capitoli di un giornale intimo, dove ognuno dei quadri in mostra, ogni scultura, neon, video, o ricamo, è un riflesso dell’artista, un composito puzzle di ricordi ed emozioni che l’arte ha trasformato: «Sono immagini che hanno attraversato il mio cuore e il mio sangue, arrivando alla fine della mia mano.» – ha raccontato Tracey Emin – «Tutto è passato attraverso di me».

Così il suo corpo ha preso possesso di tutte le sale di Palazzo Strozzi, e s’impone e si sovrappone a quell’architettura, attraverso le opere e le parole, i titoli e i pensieri, a cominciare dal cortile rinascimentale dove campeggia la metà inferiore di un enorme busto di donna in bronzo, prono: I Followed You to the End (Ti ho seguito sino alla fine, 2024), con due gambe che sembrano nascere dalla materia bruta, animate in modo prepotente e sofferente dal desiderio vitale.

E anche se la mostra al piano nobile del Palazzo inizia con Love Poem for CF (Poesia d’amore per CF, 2007), un grande neon rosa alto quattro metri e mezzo che riproduce la calligrafia di Tracey Emin e quei suoi versi (dedicati all’ex-fidanzato Carl Freedman), scritti negli anni 90, pieni di dolore e di sentimento, le opere che seguono sono scene di sesso: There was no Right Way (Non c’era il modo giusto, 2022) e Everything is moving nothing Feels Safe (Tutto si muove niente sembra sicuro. Mi hai fatto sentire così, 2018), dove emozione e vulnerabilità s’intrecciano e creano un’atmosfera carica di sensualità e di malinconia, che si collega alle esperienze della sua vita, di «quell’adolescente molto libera nel sesso, nel modo di pensare, nelle idee», ma anche ferita dall’abbandono del padre; dalla violenza di uno stupro; dall’amore, addolcito solo dalla trascendenza dell’arte che è «l’unica che non ferisce mai» e alla quale Tracey Emin torna sempre con gioia. Ogni passaggio, ogni esperienza segna una sua presa di coscienza, la reazione è una provocazione e una rivolta.

Ce lo rivela quella stanza ricreata a Palazzo Strozzi con dipinti, disegni, foto, un giaciglio e un filo da bucato con indumenti intimi appesi, e che rievoca una famosa performance dell’artista quando, nel 1996, all’interno di una Galleria d’arte di Stoccolma, si chiuse per tre settimane e mezzo in una sorta di «studio temporaneo» in cui era visibile dal pubblico esterno attraverso piccole lenti grandangolari. Lì, completamente nuda visse e lavorò realizzando dipinti e disegni ispirati ai suoi maestri ideali: Egon Schiele, Yves Klein, Edvard Munch, Pablo Picasso, ma si fece anche ritrarre in una serie di fotografie Naked photos – Life Model Goes Mad (Foto di nudo – La modella impazzisce), che gioca con ironia sul suo doppio ruolo in questa performance, dove è protagonista assoluta e modella indomita.

Fu anche un momento di svolta per Tracey Emin che con il dipinto Exorcism of the Last Painting I Ever Made riuscì a tornare alla pittura abbandonata sei anni prima, nel 1990, dopo un aborto. La vita e l’arte sono strettamente legate nella sua esistenza, quasi a sostituire quella religione che lei, figlia di padre musulmano e di madre inglese, atea e di antica famiglia Romanichal, non ha mai avuto, né come appiglio, né come confine.

Dopo il Royal College of Art, è diventata una delle artiste più rappresentative degli Young British Artists, movimento (di cui faceva parte anche Damien Hirst), con una serie di opere rimaste famose, come la sua tenda-igloo: Every Body I Ever Slept With, 1993-1995 all’interno della quale aveva ricamato i nomi delle 102 persone con le quali aveva condiviso il letto: dai suoi numerosi amanti, ai suoi familiari, a sua nonna.

Nel 1998 ha monopolizzato l’attenzione mediatica con: My Bed, opera candidata al Turner Prize, ed esposta alla Tate Gallery: un letto sfatto circondato da preservativi usati, biancheria sporca di sangue, bottiglie vuote e mozziconi di sigarette (venduta all’asta da Christie’s nel 2015, per due milioni e mezzo di sterline).

Nel 2007 Tracey Emin ha rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia e attualmente un suo neon: I Want My Time with You (Voglio trascorrere il mio tempo con te), campeggia nella stazione londinese di St. Pancras, ma tra i suoi ultimi prestigiosi lavori c’è anche The Doors (2023), le porte monumentali in bronzo per la National Portrait Gallery di Londra, per le quali ha realizzato, con una tecnica innovativa, quarantacinque ritratti di donne provenienti da ogni contesto sociale e da epoche diverse. Ha inciso una sola parola su The Doors, intima e immediata: Mum (mamma).

A Palazzo Strozzi i titoli delle varie sezioni della mostraTracey Emin – Sex and Solitude sono versi di poesie, di canzoni, frammenti di un discorso amoroso, schegge di desiderio, di passione, di mal d’amore, di vita che emana da quei corpi nudi aggrovigliati, allacciati in un abbraccio, abbandonati, ma anche da quei piccoli quadretti dedicati alla sua vecchia casa, al suo gatto, alla sua vita di ieri sconquassata quattro anni e mezzo fa, dalla diagnosi di cancro alla vescica che le lasciava poche probabilità di sopravvivere. Poi le pesanti operazioni e le cure: «Allora ho accettato di morire e ho deciso di vivere il tempo che mi restava» – Ci ha confessato Tracey Emin – «E ho iniziato a essere felice ogni giorno di più, come non lo ero mai stata. La mia vita da sempre difficile, sbiadiva e io mi sentivo in paradiso. Mi hanno tagliato a pezzettini e rimesso insieme, ma sono ancora qui. E la mia fede e la mia ricompensa: è vivere, e mi sento un artista migliore in grado di fare molte cose».

Il neon azzurro con la calligrafia di Emin che sovrasta il portone di Palazzo Strozzi recita Tracey Emin. Sex and Solitude; è la prima e ultima opera della mostra e, uscendo, sembra ancora più vivida.