Se un libro fa ancora così discutere, forse ha più cose da dire di quanto si voglia ammettere. È da sempre un romanzo non solo ironico e provocatorio, ma anche molto scomodo. Già quando uscì nel 1969 fu accolto con disturbo: troppo sguaiato, troppo esplicito, troppo rabbioso, troppo ebraico, troppo tutto. Oggi come allora, Portnoy non chiede di essere accolto in silenzio: chiede di essere sopportato, o respinto, ma non ignorato.
La nuova edizione Adelphi, in libreria da pochi giorni, infatti non smorza i toni, ma li rilancia. A partire dalla scelta di troncare il titolo – quasi a voler infastidire anche chi all’opera di Philip Roth si era affezionato – in origine Il lamento di Portnoy ora solo Portnoy. Per non parlare della copertina di Al Capp, dove una pin-up con la pipa sottomette un porco affranto: respingente, volgare secondo alcuni, e proprio per questo in perfetto dialogo con ciò che il libro è sempre stato. Persino le critiche che serpeggiano sui social sia contro la nuova traduzione (a cura di Matteo Codignola, ex editor della casa dello struzzo), sia verso l’umorismo «invecchiato», o il presunto anacronismo morale: tutto rientra nel solco che ha lasciato questo classico americano, fatto di opposizioni, resistenze e frizioni. Portnoy dunque non cambia natura, anzi. E di questi tempi, nei quali sembra esserci un clima da politicamente corretto forzato ai massimi estremi, un’opera che riesce ancora a innescare una micro ribellione ci sembra già una forma di verità.
Al di là delle polemiche, diciamo subito che ad arricchire questa nuova edizione è anche un fornito glossario yiddish/italiano e un’interessante postfazione a firma proprio del traduttore Matteo Codignola.
Per chi non lo avesse ancora letto, si fa presto a riassumere il contenuto del romanzo che mette in scena un io narrante nevrotico e affetto da un furore edipico senza pari, che cerca di uscire dal ruolo di figlio represso «in una barzelletta sugli ebrei», attraverso una lunga, schietta e sconcia confessione che rilascia al suo psicanalista (il «dottor Spielvogel», citato qua e là, che non replica mai salvo con una fulminante battuta finale pronunciata con forte accento tetesco). Portnoy è il cognome della famiglia a cui appartiene Alexander: ebreo americano, ossessionato dal sesso, dai sensi di colpa, dalla madre e dal suo giudizio. In quello che potrebbe essere definito un vivace flusso di coscienza (liberatorio?, necessario per la sua salvezza?) ci si trova di tutto, dal disprezzo per sé stesso alle difficoltà di vivere un’intimità reale, dalle masturbazioni ossessive alle repressioni famigliari, dove l’identità ebraica si rovescia in una nevrosi condita di sesso; intrigante, anche se a noi piace di più lo scarto che intercorre tra pensiero e parola, che non le descrizioni di amplessi ed eiaculazioni.
Indignazioni e rigurgiti di decoro a parte, molti lettori, come detto, esprimono perplessità soprattutto riguardo alla decisione di modificare il titolo originale, e ancor prima in molti non capiscono per quale ragione Adelphi abbia acquisito i diritti delle opere di Philip Roth, essendo un autore ormai assodato in Italia. Di tutto questo si è parlato di recente agli Eventi Letterari Monte Verità che hanno avuto per ospite proprio il giovane e appassionato direttore editoriale e amministratore delegato di Adelphi Roberto Colajanni, erede intellettuale del compianto Roberto Calasso, in dialogo con Paolo Di Stefano.
«Sì, – ha confermato Colajanni – l’acquisto dei diritti di Roth è stato un azzardo. Non era un autore che sentivo vicino. Conoscevo solo i libri più noti. È stato un incubo dover rileggere tutta la sua produzione in un mese, per capire se aveva senso questa operazione, e alla fine ho capito che Roth era un’altra cosa rispetto a quello che avevamo in testa. È stata una riscoperta che ha coinvolto tutta la casa editrice e abbiamo quindi deciso di fare il possibile per dare all’idea della sua opera, una forma diversa. Questa è la chiave essenziale. A volte l’editore deve capire se c’è lo spazio per fare questo, per dare un’immagine completamente diversa di uno scrittore. E secondo noi c’è. Ma starà al lettore capirlo, e dipende molto dalla frequenza, dalla scelta, dalla qualità delle traduzioni. Perché, secondo me, è proprio lì che bisogna lavorare di più». Difficile, qui, era soprattutto la resa dell’effetto comico creato da un testo pensato originariamente per una stand-up comedy.
Colajanni ha argomentato anche la scelta del titolo: «Il lamento di Portnoy era arbitrario. L’originale (Portnoy’s) Complaint in inglese non significa solo “lamento”, può anzi voler dire tante cose: protesta, doglianza, ed è persino la definizione di una sindrome psichiatrica. Tutte queste cose sono interessantissime. Il lamento, si sa, rimandava al Lamento di Giobbe, ma non poteva esaurirsi lì. Abbiamo provato a chiamarlo Sindrome di Portnoy, perché all’inizio del libro c’è proprio una definizione medica della sindrome, come fosse una cartella clinica. Ma risultava troppo tecnico, e costringeva la lettura. Alla fine, abbiamo deciso che Portnoy poteva stare da solo. È un libro che si regge su un monologo, e il suo personaggio è ormai parte della mitologia letteraria contemporanea».
Piaccia o no, Portnoy è una spina nel cervello che non smette di bruciare, e Adelphi non prova a medicarla: se il lettore cerca un libro bon ton, è meglio che cambi scaffale.