Demo-crazy

by Claudia

Autoritarismo, repressione, e giustizia, tra i filoni più forti di Cannes 2025

La crisi della democrazia, l’autoritarismo, il populismo e le degenerazioni del potere. E ancora le minacce dell’intelligenza artificiale, come nell’ottimo Mission: Impossible – The Final Reckoning di Christopher McQuarrie che chiude il ciclo delle avventure o, meglio, delle imprese dell’agente Ethan Hunt inscindibile dal suo interprete Tom Cruise. Sono stati i temi in evidenza nel 78esimo Festival di Cannes che si è chiuso sabato sera, tra racconti del passato e scenari presenti o futuristici. Ragionamenti e suggestioni sulla demo-crazy come è definita, con gioco di parole non nuovo ma efficace, nella potente opera prima nigeriana My Father’s Shadow di Akinola Davies jr., una delle belle sorprese del festival, ambientato nella Nigeria del 1993 con le elezioni annullate dai militari.

Prospettive che è facile definire orwelliane attingendo al grande scrittore inglese de La fattoria degli animali e 1984. Non a caso Orwell: 2+2=5 dell’haitiano Raoul Peck è stato uno dei titoli di punta della sezione non competitiva Cannes Première. Non un documentario biografico quanto una sorta di pamphlet che parte dalla vita, il pensiero e le opere di George Orwell per esplorare come nascono le sue idee (cruciali le esperienze di soldato nella colonia di Burma, ora Birmania, e nella Guerra civile spagnola) e come prendono forma. Uno scrittore socialista che si schierò contro il comunismo e ambientò 1984 nel suo Paese per mostrare che anche le culture anglosassoni non sono immuni dal totalitarismo. Il regista di Lumumba, I’m not your Negro e Il giovane Carlo Marx usa Trump, la Corea del Nord, la Cina o l’Ungheria come esempi, utilizzando immagini dei film ispirati alle opere di Orwell, Brazil di Terry Gilliam, La mia Africa e vari lavori di Steven Spielberg e Ken Loach, tra fantascienza e realismo.

Vorrebbe forse fare un discorso simile Ari Aster (noto per l’horror Midsommar) con Eddington, uno dei più deludenti nel concorso per la Palma. Siamo in New Mexico nel maggio 2020. Mentre la pandemia imperversa, lo sceriffo Joe (Joaquin Phoenix) è contrario all’uso della mascherina e si candida contro il sindaco che fa rispettare l’obbligo. La prima parte contiene tutti gli elementi del western (lo sceriffo che infrange la legge, il saloon, la comunità che si sente assediata, il negare l’evidenza, il farsi giustizia da soli) ed è un interessante quadro di come la paranoia e il complottismo prendano il sopravvento, peccato che poi la pellicola sbrachi e non si capisca neanche più su cosa sia indirizzata l’ironia.

Altro Governo con una forte connotazione di regime è quello egiziano di Al-Sisi, contro il quale si schiera nettamente il bel The Eagles of the Revolution di Tarik Saleh, terzo capitolo di una trilogia critica su Il Cairo. È la storia dell’attore George Fahmy, detto il faraone dello schermo, una star vecchia maniera (la pellicola è anche un omaggio a quelle classiche del cinema arabo degli anni Cinquanta/Sessanta) che non si allinea al potere, ma suo malgrado diventa una pedina quando gli propongono di interpretare proprio Al Sisi in una biografia. Un thriller coinvolgente che culmina in una pazzesca scena di attentato che ricorda quello contro il presidente Sadat nel 1981.

Il tema del potere intrecciato alla giustizia accomuna due pellicole molto diverse tra loro come Two Prosecutors dell’ucraino Sergei Loznitsa e il francese Dossier 137 di Dominik Moll, entrambe venate da un amarezza di fondo. Il primo è ambientato nel 1937, «nel pieno del terrore staliniano», con il giovane procuratore Korneyev che riceve un messaggio scritto con il sangue da un carcerato. Il funzionario, iscritto al Pcus e dedito all’ideale di giustizia, farà di tutto per incontrarlo, raccogliere la sua denuncia e prendersi a cuore il caso, aprendo gli occhi su ciò che sta accadendo. Il regista di Maidan e Donbass mette a frutto il suo stile curatissimo e le inquadrature fisse per rendere vividi i destini a cui non si può sfuggire. Allo stesso modo non sfugge il parallelo suggerito tra Stalin e Putin.

Siamo a Parigi, nel novembre 2018, mentre sono in corso le manifestazioni dei gilets jaunes, nel film di Moll, noto per La notte del 12. Un polàr (ndr, noir) con protagonista Stéphanie Bertrand (la bravissima Léa Drucker), poliziotta dell’Igpn con l’ingrato compito di indagare i colleghi colpevoli di reati. Come Korneyev, l’inquirente parigina prende molto sul serio il proprio lavoro: non si tratta di accusare la polizia, ma di difenderne la dignità e l’immagine. Quando la signora Girard si presenta a denunciare il ferimento del figlio Guillaume con un colpo di pistola in una strada laterale degli Champs-Èlisées durante una protesta, la donna raccoglie verbali e immagini delle videocamere di sorveglianza, incrociando le evidenze e cercando di identificare i reparti operanti in zona. Un poliziesco classico nella forma, ma implacabile, che parte da fatti veri per mostrare, pur in un caso estremo, l’impossibilità della giustizia anche in una democrazia. Come nel film precedente, Moll arricchisce la vicenda di tante sfaccettature e presenta una protagonista determinata che si ritrova coinvolta a livello personale, ad affrontare una serie di dilemmi.