Che bellezza l’Intelligenza Artificiale (IA). Seduce in molti ambiti e, a metterle un minimo di briglia, per esempio chiedendole sistematicamente di citare le fonti, diventa uno strumento di ricerca stratosferico. I lati oscuri? Per esempio temiamo che rubi posti di lavoro a mezzo mondo. Tutto questo non ci sembra né intelligente né artificiale. Perciò apprezziamo l’approccio dell’Unione europea che, nel Regolamento sull’Intelligenza Artificiale promuove «la diffusione di un’IA antropocentrica e affidabile, garantendo nel contempo un livello elevato di protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali». Anche il nuovo Papa, di fronte a questa novella rivoluzione basata sull’automazione del lavoro cognitivo batterà il tasto della «difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro». E meno male.
Più sottilmente inquietante l’osservazione di Mario Botta, che ho incontrato nel suo studio di Mendrisio: «So – ha spiegato – che lo sviluppo tecnologico e le conquiste che abbiamo fatto fino a oggi sono direttamente proporzionali alla velocità dei risultati che riescono a ottenere. Tutto è stato fatto per aiutare l’uomo in maniera sempre più rapida. Ma questa rapidità, è stato scientificamente dimostrato, è direttamente proporzionale all’oblio. L’Intelligenza Artificiale ha nel suo DNA la moltiplicazione straordinaria dei dati e della rapidità. Se creiamo strumenti direttamente proporzionali al dimenticare creiamo una società di orfani. Orfani di se stessi. È come correre in continuazione contro il vuoto».
È vero? La Fondazione Bassetti (creata per promuovere l’innovazione responsabile) conferma questa percezione in uno studio secondo il quale «la velocità dell’innovazione supera la capacità della società di elaborare, ricordare e integrare le trasformazioni».
E così, la corsa ad accaparrarsi questo formidabile strumento, rilanciata da Donald Trump per ragioni di forza («L’intelligenza artificiale è una superpotenza. Se non la dominiamo noi, lo farà la Cina», aveva detto mesi fa) rischia di farci cadere in un trappolone che cancella le nostre radici. Precipitiamo verso l’“obsolescenza culturale”: ciò che è nuovo oggi viene subito superato, e si finisce col perdere la memoria del contesto in cui è nato. Ecco il racconto distopico che fa veramente paura: in un’era nella quale i grandi marchi della tecnologia creano strumenti che vanno continuamente aggiornati e ricomprati, altrimenti diventano inutilizzabili (dal PC al telefonino), l’intelligenza artificiale sta programmando l’obsolescenza dei tempi umani.
No, le macchine non sono mostri cattivi che sottomettono l’uomo al loro dominio, ma divinità indifferenti che ci costringono a «correre contro il vuoto», contro la sparizione del nostro cammino di crescita, del tempo e della fatica necessari per capire le cose e interiorizzarle. L’IA è così immediata che non conosce il riposo notturno delle idee, il letargo rigenerante dei tempi di sviluppo, il sonno del seme che attende sottoterra il momento giusto per germogliare. Qui i fiori e i frutti ti sbocciano in mano subito, meravigliosi ma sintetici, plasmati dalla potenza di calcolo degli algoritmi. Li osservi ammirato, ma rischi di non sapere più da dove vengono.