L’intransigenza di Kaja Kallas non convince

Kaja Kallas è quello che gli inglesi chiamano una «straight shooter», una che va dritto al punto. Parla chiaro, si sa cosa pensa, è intransigente, cristallina nell’eloquio, chiara nei valori. Ce ne fossero di più, di politici come lei, in teoria. Non è detto però che le sue siano le qualità ideali in un momento in cui le relazioni internazionali sono spinose anche con gli alleati tradizionali, a partire dagli Stati Uniti… Soprattutto per chi, trovandosi alla guida della diplomazia dell’Unione europea, deve vedersela con sensibilità e storie diverse, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con Mosca. Un rapporto che per lei, estone proveniente da una famiglia legata alla tormentata storia del Paese, non conosce sfumature possibili: Vladimir Putin è il male, ha invaso l’Ucraina e tutto il fronte est dell’Europa è in pericolo. Un sostegno limpido, il suo, e per questo encomiabile, che però la sta portando a creare fronti e fazioni all’interno dell’Ue e anche in quella che dovrebbe essere la sfera di influenza europea. Ex premier, con un passato da avvocata, a un anno dalla sua nomina a detta degli osservatori brussellesi mancherebbe di quel piglio felpato che a un diplomatico è richiesto, soprattutto quando è alla guida di una struttura ancora fragile sia perché relativamente recente, sia perché in eterna competizione con gli altri centri di potere Ue, a partire dalla Commissione europea. E quindi in queste settimane tutti scrivono che la stella di Kallas, così brillante all’inizio, si starebbe già offuscando.

Facciamo un passo indietro. La capa del Servizio europeo di azione esterna è nata nel 1977 a Tallinn, quando la città era nell’Unione sovietica. La sua è una famiglia importante, legata alla lotta per un’Estonia indipendente, di cui il suo trisavolo era stato uno dei padri fondatori nel 1918, nonché primo capo della polizia segreta. La mamma di Kaja Kallas era stata mandata in Siberia quando aveva 6 mesi insieme alla nonna e alla bisnonna ed era sopravvissuta per miracolo, la sua storia famigliare è piena di aneddoti di stenti e ferocia, così comuni in una parte dell’Europa, eppure distanti, quasi esotici per molti Stati membri, che faticano a immaginare la vita sotto una dittatura. Da ragazzina lei stessa aveva viaggiato per i Paesi dell’Unione sovietica come ballerina folk, ma era stata una vacanza a Berlino est insieme ai genitori a segnarla di più: vicino al muro, il papà l’aveva esortata a respirare l’aria di libertà che veniva dall’altra parte. Nel 1991, al momento dell’indipendenza, il padre Siim aveva fondato il Partito riformista liberale, diventando uno dei volti della nuova Estonia libera.

Avvocata, sposata una prima volta quando era piuttosto giovane, Kallas inizia a far politica presto, nel 2010, perché è troppo sveglia, dicono i vecchi amici, per non fare carriera. La sua famiglia è ingombrante, e si impegna a tracciarsi un sentiero che sia suo, a proporsi come qualcosa di completamente nuovo. Deputata nel 2011, eurodeputata nel 2014, prima donna alla guida dell’Estonia nel 2021, prima è molto popolare, poi la sua fama si fa più salda all’estero che in patria. Un colpo al suo prestigio è venuto fatto che il suo secondo marito, l’imprenditore e banchiere, Arvo Hallik, abbia infatti una quota in un’azienda di logistica che ha continuato a operare in Russia anche dopo l’invasione dell’Ucraina. Lei nega di esserne stata al corrente e ha parlato di caccia alle streghe, ha dichiarato di averci riflettuto e di non aver ritenuto di doversi dimettere, mentre più di qualcuno, compresi membri del Governo ungherese, la accusavano di «ipocrisia». L’altra accusa è di aver fatto un po’ di «cresta» sui rimborsi per le armi inviate in Ucraina: erano vecchie, sono state pagate come fossero nuove, ma a detta sua nessuno si è lamentato.

Eppure la sua intransigenza anti-russa l’aveva portata a chiedere lo smantellamento delle statue risalenti al periodo sovietico, finendo sulla lista nera del Cremlino per un metodo considerato poco rispettoso della storia, almeno da Mosca. E la sua lettura della guerra in Ucraina è semplice e lineare – «c’è un aggressore e un aggredito» – e la priorità è fare in modo che la Russia non torni ad attaccare. Temi su cui ha accusato più volte gli altri leader europei, già ai tempi di Angela Merkel, di essere naif. Normalizzare la relazione con Mosca è impensabile, trattare con Putin impossibile. Kallas addirittura vorrebbe che i turisti russi non fossero accettati in Europa. Timothy Garton Ash sostiene che Kallas sia in una posizione unica, perché il suo è un Paese oggetto di colonialismo, non colonialista, e per questo può parlare dal punto di vista delle vittime, dire: «Vi rendete conto che si tratta di una guerra neo coloniale?»

A Bruxelles starebbe cercando di imporsi attraverso una rimozione di tutto quello che porta le tracce del suo predecessore, lo spagnolo Josep Borrell, e della sua schiera di diplomatici esterni. Questo fa il gioco di Ursula von der Leyen, ben felice di riprendersi il controllo di tutto, anche degli esteri, portando dalla sua parte i diplomatici esperti licenziati da Kallas, che in questo primo anno è stata legata quasi unicamente al dossier ucraino, su cui però non ha ottenuto grandi risultati: l’idea di mobilitare 40 miliardi per armamenti e capacità militari a Kiev è stata un fallimento; se non ci fossero Stati Uniti e altri Paesi la somma non sarebbe mai stata raggiunta, visto che l’Ue ci ha messo solo 5 miliardi e per le munizioni. Non ha saputo cogliere lo stato d’animo a Bruxelles, e mentre lei continua a parlare di vittoria di Kiev, tutti pensano ormai ai negoziati di pace. Solo che la macchina europea funziona con l’unanimità, e lei non sembra avere il piglio adatto per ottenerla. Non che sia facile, sia chiaro, anche i suoi predecessori hanno sofferto molto. Anche con la Casa Bianca ha preso un tono poco diplomatico. «Oggi è chiaro che il mondo libero ha bisogno di un nuovo leader», ha scritto dopo lo sventurato incontro nello studio ovale tra Trump, Vance e Zelensky, e in molti a Bruxelles avrebbero preferito che questa evidenza fosse ammantata di una maggiore cautela.

Ha chiesto ai leader europei di non andare a Mosca per il 9 maggio, ma ha usato toni perentori, controproducenti, non in grado di creare quel consenso fondamentale per tenere insieme la macchina comunitaria. C’è una sfida sotterranea che Kaja Kallas non ha ancora vinto, ed è quella che consiste nel distaccarsi da quell’etichetta di Lady di ferro che viene imposta a qualunque donna entri nell’arena politica per imporre le proprie qualità, una propria maniera di fare le cose: la stampa ha iniziato ad agitarsi, il pragmatismo ruvido non deve restare il punto essenziale della sua identità politica, i consiglieri vanno ascoltati. E la politica estera, dicono tutti, deve guardare oltre all’ex cortina di ferro, almeno fino al Medio Oriente, all’Africa, di America Latina. Intanto l’Ue, settimana scorsa, ha deciso di revocare tutte le sanzioni economiche ancora in vigore sulla Siria, nella speranza che lo sgravio faciliti l’accesso ai fondi e acceleri la ripresa del Paese devastato dalla guerra dopo la caduta della dittatura di Bashar al-Assad. E Kallas ha commentato: «O diamo loro una possibilità, o rischiamo un nuovo Afghanistan».

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