Attraversando lo splendore ferito della Valle Bavona

Sono stato in Vallemaggia per visitare con un centinaio di altri iscritti i luoghi della Valle Bavona devastati dall’alluvione della notte fra il 29 e il 30 giugno dell’anno scorso. E per seguire, qualche ora dopo, l’attribuzione del premio di Paesaggio svizzero dell’anno 2025 alla Fondazione Val Bavona e al comune di Cevio (vedi articolo sotto). Credevo che mi sarei portato via i panorami vertiginosi del luogo e le parole commosse dei relatori in un giorno di festa in la minore. Invece, passano i giorni, e mi resta dentro l’immagine iconica di una Madonna mutilata.

L’appuntamento era per le 10 di sabato 24 maggio, ma a Cavergno volevo arrivarci un po’ prima per gironzolare sacco in spalla nel villaggio, prenderne piano piano coscienza. Partendo dal cimitero, dove Plinio Martini – l’amatissimo autore del Fondo del sacco – riposa in una tomba di sasso che accoglie pure la moglie Maria, morta nel 2008, 31 anni dopo di lui. E visitando la parrocchiale tardobarocca, dove – ancora ignaro di cosa fosse – vengo folgorato dalla visione della statua lignea di una Madonna senza volto e senza mani, all’interno della cappella della Vergine del rosario.

Ferita ma viva

Solo un paio d’ore dopo mi verrà spiegato che fino a undici mesi prima quella statua si trovava a Mondada, nella cosiddetta «cappella degli australiani», completamente rasa al suolo dall’alluvione con circa altre 15 costruzioni. Notando una massa colorata nelle acque e credendo potesse essere il corpo di uno dei dispersi – leggo nel sito di catt.ch – il pompiere Brenno Inselmini l’aveva ripescata dalle acque ruggenti del fiume tre chilometri più a valle, a Cavergno, poche ore dopo il nubifragio. Guardo questa Madonna in manto blu e tunica rossa che non può guardarmi e non può toccarmi e penso che potrebbe essere lei il simbolo della Vallemaggia ferita eppure ancora viva, coraggiosa e luminosa.

L’escursione ci porta proprio lì, dove il «demonio infuriato (…) straripa e mena via tutto», come scriveva già più di cent’anni fa – era il 1919 – Giovanni Anastasi, facendo riferimento al fiume Bavona e alla sua forza incontrollabile nelle buzze che ogni tanto travolgono la valle. «Alle alluvioni siamo abituati da sempre», spiega Rachele Gadea-Martini, direttrice della Fondazione Valle Bavona, accompagnandoci con passo deciso all’imbocco della valle. «Ce ne sono già state moltissime nella nostra storia, ma di queste dimensioni ne conosciamo solo altre tre o quattro: quella di 5 o 6 mila anni fa nella regione oggi denominata Gannariente e altre due, di fronte a Fontana e Foroglio, attorno al millecinquecento».

Lo attesterebbe – ma il condizionale è d’obbligo perché di documentazione non ce n’è – la scritta incisa su un masso proprio a Fontana: Giesu Maria/ qui fu bela campagnia/ 1594. Come a dire che un tempo, da quelle parti c’erano distese di prati. Oggi, e già a fine ’500, li guardi e li trovi pieni di massi ciclopici, portati a valle da una delle innumerevoli catastrofi del passato.

Quante vittime? Una contabilità precisa delle tragedie del passato remoto non esiste, «abbiamo la scritta di un uomo schiacciato da un masso tra Roseto e Foroglio, chissà di quanti altri non abbiamo notizia».

In ogni caso piccoli nuclei («le Terre», come le chiamano qui) con le loro casupole, le stalle, gli oratori e i mulini, si sono costruiti attorno ai macigni. I vallerani si sono ingegnati per trarre profitto dalle bizzarrie del terreno. Tra gli anfratti dei giganteschi pietroni finiti sui prati, per esempio, hanno creato delle cantine, gli splüi, sfruttando un sistema perfetto di protezione dalla pioggia e spifferi d’aria che consentiva loro di conservare cibo, alloggiare bestiame e in alcuni casi, con mirati interventi di muratura, di viverci dentro. Anche Plinio Martini parlava dei «massi del fondovalle che hanno travolto la campagna, e sotto i quali i Bavonesi testardi hanno anche scavato il canvetto. Poi vi appoggiavano una scala e portavano su la terra a creare un praticello o un orto di lattughe».

Perfino le selve castanili, osserva dal canto suo Rachele, devono adattarsi a spuntare tra i massi. E per avere un po’ d’erba o di grano da falciare si sono appunto inventati dei giardini pensili, piccoli orti sospesi sopra ai blocchi di pietra più comodi.

Vita difficile quassù, annotava sempre Plinio Martini ne I funerali di zia Domenica: «Sonlerto continuava però a distare due ore e mezza di cammino lungo una mulattiera le cui pietre erano levigate dalla transumanza degli uomini e delle bestie meglio che i ciottoli del fiume; inoltrarsi in quella strada voleva dire uscire dalla storia verso un mondo antico, dove la vita ritrovava il suo ritmo solare e la fatica non era compensata con danaro».

Ma a quelle fatiche i Bavonesi si sono affezionati. Perfino oggi, per scelta deliberata, undici delle dodici terre della Valle (esclusa quella di San Carlo) rinunciano all’uso dell’energia elettrica e si arrangiano col gas, i pannelli solari o semplicemente con niente.

Sui luoghi della tragedia

Con queste idee nel cuore, ci avviciniamo al luogo dove ci sono stati più morti l’anno scorso (cinque a Fontana, mentre altri due più un disperso si sono avuti in Lavizzara). Ai lati della strada rifatta c’è un’antica grà bombardata dai sassi. Più in basso, spiega la nostra interlocutrice, due persone hanno perso la vita.

Lì c’erano i loro rustici riattati, spazzati via dalla corrente creata dall’infinita tempesta riversatasi su una linea tra Bavona e Lavizzara con un’intensità inaudita: in sei ore è sceso dal cielo quello che normalmente piove in un mese e mezzo-due. Per fortuna le dighe create negli anni Sessanta hanno trattenuto un bel po’ d’acqua, altrimenti sarebbe stato ancora peggio.

Colpisce che dei 15 edifici distrutti nel giugno scorso (altri cento quelli danneggiati) nessuno, originariamente, fosse una casa d’abitazione. Segno che gli antichi sapevano scegliere con precisione chirurgica dove costruire o non costruire le case.

Il passaggio da Cavergno alla Valle Bavona è, prima di tutto, una questione cromatica: dal verde sfavillante dei prati e dei boschi si incappa di colpo nel grigio-bianco marmoreo delle pietre precipitate a valle.

Nei mesi scorsi, qui sono stati spostati 300’000 metri cubi di materiale. Improvvisamente camminiamo come formiche dentro un’immensa pietraia che attraversa la valle partendo dalle pendici della montagna per giungere fino al fiume. Ma lì, fino a prima dell’alluvione, era tutto un bosco, manco le vedevi, le acque della Bavona. Nei giorni successivi la strada faceva impressione, era come butterata di piccoli crateri nell’asfalto. «Qui a Mondada – ci dice Rachele – la pressione dell’acqua doveva essere così potente da spingere i sassi a bucare l’asfalto da sotto, il catrame era vetrificato».

Un’immensa pietraia

Laddove viveva la Madonna ripescata, oggi c’è una massa candida di pietrame su cui qualcuno ha disteso un albero divelto scrivendo con vernice arancione: «Cappella d’Australia». A Fontana osserviamo sgomenti il canalone da cui è piovuto il grosso dell’inferno (anche se le frane dai riali sono state cinque, tra cui quella di Roseto che ha chiuso il fiume) modificando per sempre l’aspetto della valle.

È una ganna di pietre che scendono e si allargano verso il fondo, montagne di massi bianchi punteggiati di macigni alti fino a tre-quattro metri, come quello precipitato nei pressi del vecchio ponte del Chiall, poco distante dalla sorgente dell’acquedotto comunale.

La pietraia ha preso il posto della vegetazione che cent’anni fa faceva sognare un altro scrittore valmaggese, Giuseppe Zoppi, che scriveva: «Ma nel bosco, soltanto nel bosco cominciava l’imprevisto, germinava il fantastico, fioriva, come un selvatico rosaio, la leggenda».

Poesie e leggende sono costrette ora a convivere con la massa sterminata delle pietre, una ferita bianca nella valle verde. Rachele ci indica col dito la zona dove sono morte tre donne, lassù, dietro un caseggiato che spunta tra le rocce.

Sul lato opposto del canalone la furia della natura ha sbriciolato una stalla, ma non la casa adiacente. Poco sopra, spiega Rachele, racconteranno poi che quella notte vedevano le pietre volare sopra le loro teste come asteroidi, illuminate a giorno dai lampi della tempesta.

Picche, pale e galline

La Valle Bavona, attraversata oggi da ciclisti e motocilisti mossi dal turismo della curiosità, è un mondo ridisegnato che non potrà più tornare a essere quello di prima. «Ma sa cosa le dico?», s’infiamma Rachele Gadea Martini, «È vero: questa ferita non verrà mai rimarginata, nuovi massi si aggiungono ai massi delle catastrofi precedenti, ma come tutte le altre volte ci siamo tirati indietro le maniche e abbiamo portato picche, pale e galline qui sul posto per ricominciare. In uno scenario instabile e provvisorio (stiamo ancora aspettando una carta aggiornata dei pericoli), torneremo a vivere e far vivere questi luoghi. Tutto questo risveglierà ancora una volta la solidarietà di tutti e il potere creativo della gente di valle».

L’apparizione tra le acque della statua mariana – commissionata nel 1859 da 22 emigranti valmaggesi rientrati dall’Australia dove avevano cercato fortuna – sarà anche un caso fortuito ma, simbolicamente, rappresenta la fiducia dei Bavonesi in se stessi, nei propri mezzi e nella propria buona stella. La valle è ferita, come la sua Madonna, e toccherà ai suoi abitanti e ai numerosi estimatori che l’amano ridarle il volto e le mani che ne costruiranno il futuro.

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