Cinque lettere, nessun perdono

Più passano gli anni e più la figura di Alfonsina Storni si impreziosisce di un’affascinante e irriducibile ambivalenza. Da un lato l’immagine di un’esistenza sradicata, un arco vitale esile e fugace, segnato dal più delicato dei sentimenti: l’amore; dall’altro, la consapevolezza che l’autrice – nota ai lettori italofoni soprattutto a partire dalla raccolta edita da Casagrande nel 1988 – già in vita aveva ottenuto un largo riconoscimento tra i poeti argentini e che nel frattempo è ormai entrata di diritto nel canone latinoamericano accanto a Rubén Darío, Pablo Neruda e Jorge Luis Borges. Qualunque nuova uscita editoriale che la riguardi è perciò motivo di soddisfazione per i non pochi estimatori della poetessa originaria di Sala Capriasca. Ogni nuovo materiale venuto alla luce, come queste Cinque lettere delle edizioni Pagine d’Arte, è un tassello importante per delineare più compiutamente una figura in parte ancora avvolta da un alone di leggenda.

Certo, il volumetto – poco più che una plaquette – raccoglie dei marginalia rispetto al corpus poetico di Alfonsina Storni, tuttavia la pubblicazione è meritevole perché riporta l’attenzione su una figura non sufficientemente valorizzata dopo l’iniziale entusiasmo seguito all’edizione bellinzonese (ricordo, a Pavia, l’ammirazione con cui ne parlò Maria Antonietta Grignani).

Il volume potrebbe recare come sottotitolo Trattato sul corteggiamento a uso degli uomini, perché dietro l’apparenza di scambi epistolari tra amanti (sono comprese solo le lettere delle controparti femminili), ciascuno dei testi dichiara la volontà di autoaffermazione femminile e, in ultima istanza, di rivendicazione della sua superiorità spirituale sul maschio (perlomeno nella sua variante gauchesca). Un’asimmetria sentimentale che doveva certo pesare nella quotidianità di una giovane donna nella società argentina dei primi decenni del Novecento, tanto più se questa donna era madre senza essere sposata.

Ibrido per sua natura, il genere epistolare soggiace nelle Cinque lettere alla personalissima scansione poetica dell’autrice («la prosa esita sul ciglio del metro» ha scritto Derek Walcott). Leggendole si viene come sospinti in quella terra di mezzo tra prosa e poesia che con opportuno ossimoro è detta prosa poetica o poesia narrativa. Inutile citare brani dove, tra le righe, pulsano ritmi e ribattiture sonore. Vedrà il lettore avendo tra le mani il prezioso libretto.

In questa piccola raccolta aleggia inoltre un fascino del tutto particolare: la sua ambientazione tardoromantica. Non c’è pagina infatti dove non si colga un’incantevole aria fin-de-siècle, un clima alla Amalia Guglielminetti, seppur temperato da una sorta di controcanto gozzaniano.

Un aspetto, infine, che fa di questo esile libro una lettura avvincente è l’ironia di cui il testo è finemente intarsiato. La terza lettera, per esempio, si apre lusingando il destinatario con un elogio in forma di metafora del suo stile epistolare, salvo disilluderlo subito dopo rivelandogli di averla ricavata, la metafora, dal proprio repertorio retorico: «Dalle prime righe della vostra lettera sapete esprimervi come facevate in riva al mare, il quale sussurrava quando la bianca e languida viaggiatrice celeste vi poneva nelle mani una livida luce incantatrice. Non sorprendetevi di questa frase, […] noi donne ci stiamo abituando a dire galanterie con la stessa abilità degli uomini, e ciò dentro il rancido cerimoniale amatorio ha tanto di sconveniente quanto di rivoluzionario». Non c’è modo più perfidamente accattivante per prendersi gioco di un uomo.

Related posts

Viale dei ciliegi

Cosa tenere e cosa no

Viale dei ciliegi