Il luogo comune che vuole Georges Bizet autore d’un opera sola, Carmen, è duro a morire. Forse l’occasione celebrativa dei 150 anni dall’immatura morte sarà propizia per smantellare l’idea del solo capolavoro, scritto pochi mesi prima che una polmonite buscata dopo una nuotata a fine maggio nella Senna, lo spedisse al Creatore.
Il pubblico dell’Opéra-comique di Parigi, il teatro delle famiglie e dei fidanzamenti borghesi, rimase scioccato dall’opera rivoluzionaria di Bizet, che presentava nel 1875 una donna libera di scegliere chi amare, fino a pagare con la vita la folle gelosia dell’amante che per lei ha disertato e s’è fatto contrabbandiere.
La storia ha elevato Carmen allo status di super-capolavoro che in occasione e anche prima di queste celebrazioni è stato possibile vedere nello storico primo allestimento del ’75, dopo tante operazioni registiche fantasiose e traslochi temporali.
Il regista Romain Gilbert ha concertato ogni movimento sulla musica e sull’azione, lo scenografo Antoine Fontane ha dipinto la Spagna di fantasia vista dal nord dei Pirenei, il costumista Christian Lacroix ha resuscitato stoffe, fogge e colori del libretto tratto dalla novella di Prosper Merimée, il datore luci Hervé Gary ha ripensato l’originale illuminazione a gas con barre luminose a bassa intensità collocate dietro ogni telaio.
Hanno dimostrato che lo studio delle fonti storiche a disposizione (libretto, disposizioni sceniche, stampe, bozzetti e figurini) è la chiave per una messa in scena che galvanizza la vista in concordia con l’udito.
Oltre a guardare e ad ascoltare Carmen con diversa consapevolezza, è possibile vedere il genio del suo autore risplendere ben prima del capolavoro.
Per decenni altre due opere di Bizet sono rimaste diversamente popolari: l’opera giovanile, Les Pêcheurs des perles (1863), amata nei loggioni ma snobbata dai «sapienti» come dolciastro frutto esotico, giammai accostabile a Carmen che Nietzsche eleverà a simbolo della libera arte mediterranea contro il dilagante dramma nordico wagneriano; e le stupende musiche di scena, raccolte in due suite per orchestra, per l’Arlesienne (1872), il dramma di Alphonse Daudet del ragazzo di campagna sedotto dalla circe provenzale.
Se la popolarità dei Pêcheurs si specchia in parecchie incisioni di riferimento sotto le bacchette luminose di André Cluytens, Manuel Rosenthal e Georges Prêtre (riesumatore anche della rara e preziosa Jolie Fille de Perth con lo stile belcantistico di Alfredo Kraus e June Anderson), un «Ritratto» pubblicato dal Palazzetto Bru Zane (4 cd BZ 1059) colma tutte le lacune della musica meno nota, come le cantate per i concorsi del Prix de Rome.
Opere d’occasione che mostrano quanto lo studio al Conservatoire parigino e l’esempio di Gounod avessero reso Bizet capace di superare le condizioni più difficili, come musicare libretti zuppi di convenzioni: la forza drammatica della tempesta e lo slancio del Duo conclusivo del Retour de Virginie (1852) sono palesi dimostrazioni che Bizet non sottovalutava nulla, nemmeno gli «invii» che il vincitore del Prix de Rome doveva mandare durante il formativo pensionato alla Villa Medici di Roma.
Nell’ode-sinfonica Vasco de Gama (pubblicata postuma nel 1880) c’è già tutto Bizet – la mano maestra dell’orchestratore, la rara sensibilità coloristica, il pronunciato gusto per combinazioni strumentali inattese.
C’è poi una riuscita che sorpassa tutte le altre, l’atto unico commissionato dall’Opéra-Comique, Djamileh (1872). Una perla «svelta e aristocratica»: Gustav Mahler l’amava per la verità della pittura psicologica. È uno scrigno «di charme e d’accenti penetranti quando la situazione lo richiede» (J. Massenet); musica che compensa l’esile trama della schiava che conquista il padrone che l’aveva abbandonata.
Il Cairo dov’è ambientata appare come un quadro orientalista di Henri Regnault, il direttore/regista dell’Opéra-Comique, Camille Du Locle, parve svaligiare il bazar di Costantinopoli per svestire le sue erotiche almee velate e avvolgere gli uomini di sete blu striate d’oro.
Bizet inventa il suo «colore locale» fascinoso come per la Ceylon dei Pêcheurs, la Scozia della Jolie fille, e la Spagna di Carmen, orienti coloniali e terre pittoresche come antidoto al wagnerismo, dilagante dopo la disfatta francese di Sedan e il crollo del Secondo Impero davanti alle truppe di Bismarck.
I primi a capire il genio del giovane Bizet furono i colleghi come Camille Saint-Saëns che dedicò a Djamileh un sonetto satirico: il borghese «ruminante nella chiusa stalla, / panciuto, sporco, separato a malavoglia dalla sua orda» che tra le logge dell’Opéra-Comique «schiude un occhio vitreo, mangia un bonbon zuccherato, s’addormenta, credendo che l’orchestra stia accordando», mentre Djamileh «fra effluvi di rosa e sandalo, segue il suo sogno d’oro, d’azzurro e di cristallo, sdegnosa della folla ebete», e si allontana «fra gli archi moreschi (…) perla gettata ai porci».