Nell’era digitale, i social network sono diventati onnipresenti nella quotidianità della maggior parte di noi. Dalla condivisione di foto e aggiornamenti di stato alla connessione con amici, vecchi e nuovi, e familiari, ci offrono opportunità di interagire con gli altri finora inedite. Una rivoluzione non esente da rischi, perché i social possono influire negativamente sulla nostra salute mentale ed emotiva. Del loro impatto, spesso invisibile, sulla nostra vita, abbiamo parlato con la professoressa, ricercatrice e scrittrice Sara Rubinelli, che al tema ha dedicato una conferenza – tenutasi il mese scorso a Bellinzona – dal significativo titolo Like, ergo sum? – i social media e il dilemma dell’esistenza.
Esperta di comunicazione nazionale ed internazionale, Sara Rubinelli è professoressa di Scienze della Salute presso l’Università di Lucerna. Da anni studia come il linguaggio e le strategie comunicative influenzino il benessere psicologico, la percezione della realtà e il rapporto con la tecnologia, approfondendo temi quali la persuasione, la disinformazione e l’impatto dei social media sull’identità digitale. Su queste tematiche è autrice di libri, scrive per il quotidiano «La Stampa» e sui social network con il profilo @comunicalascienza.
Professoressa Rubinelli, qual è attualmente il ruolo dei social media nella nostra vita?
Oggi i social media non sono più soltanto strumenti di comunicazione: sono diventati architetture di senso, ambienti in cui si forma e si trasforma l’identità individuale e collettiva. Essi modellano il modo in cui ci relazioniamo agli altri, agli eventi e, ancor più profondamente, a noi stessi. Sono l’estensione digitale della nostra presenza nel mondo, il luogo dove la narrazione di sé diventa pratica quotidiana e dove l’attenzione, la nuova moneta simbolica, si scambia come bene di consumo. In questo contesto il ruolo dei social media è tanto potente quanto ambiguo: essi offrono opportunità straordinarie di connessione ed espressione, ma al contempo rischiano di intrappolarci in dinamiche di visibilità, competizione e controllo.
I social sono nati per essere degli strumenti di connessione e condivisione; nella realtà dei fatti, sono riusciti a raggiungere questo obiettivo? Concretamente, ci avvicinano davvero agli altri?
La promessa originaria dei social media – connettere le persone oltre i confini geografici e culturali — rimane, almeno in superficie, straordinariamente viva. Tuttavia, la pratica quotidiana ci racconta una storia più complessa: i social ci avvicinano in apparenza, ma spesso ci allontanano in sostanza. Frequentiamo le proiezioni idealizzate degli altri, non le loro presenze autentiche. Ci scambiamo like più che sguardi, commenti più che parole vissute. È un paradosso moderno: mentre moltiplichiamo i canali di contatto, rischiamo di impoverire la qualità profonda delle relazioni. In definitiva, ci avviciniamo agli altri, ma forse ci allontaniamo da ciò che significa davvero «essere in relazione».
Uno degli aspetti problematici in questo ambito è quello relativo all’immagine di sé non sempre reale che viene mostrata sui social; a cosa è dovuto e cosa comporta?
La costruzione dell’immagine di sé sui social si fonda su una tensione antica: il desiderio di essere riconosciuti. Tuttavia, nella dimensione digitale, questo desiderio si amplifica fino a diventare spettacolo. L’io non si limita più a essere vissuto: deve essere esibito, curato, ottimizzato. Così selezioniamo i momenti migliori, eliminiamo le imperfezioni, confezioniamo versioni edulcorate della nostra quotidianità. Questo processo risponde a una logica di mercato: l’attenzione è il bene da conquistare, l’immagine è il prodotto da vendere. Il rischio, però, è profondo: finiamo per vivere nella continua rincorsa di un ideale che non potrà mai coincidere pienamente con la realtà. Il prezzo da pagare è spesso un senso strisciante di alienazione e di inadeguatezza.
Nello specifico, quando il rapporto tra il «me ideale» e il «me reale» diventa problematico?
Il divario diventa problematico quando non è più percepito come gioco consapevole, ma si trasforma in criterio di autovalutazione. Quando iniziamo a misurare il nostro valore reale sulla base della performance digitale, l’identità autentica viene erosa. Non siamo più padroni della nostra immagine, ne diventiamo schiavi. In questi casi, l’immagine social non solo influenza, ma riplasma la percezione che abbiamo di noi stessi, orientando aspettative, giudizi e perfino emozioni. Si tratta di una mutazione sottile ma profonda: l’identità non nasce più dal vissuto, ma dal rispecchiamento nello sguardo virtuale degli altri.
I social dunque tendono a modellare la nostra percezione della realtà, oltre all’immagine che abbiamo di noi stessi; è corretto?
Sì, e in modo radicale. I social media non si limitano a filtrare la realtà: ne producono una nuova versione, costruita attraverso algoritmi che privilegiano ciò che emoziona, polarizza, semplifica. Ogni scroll, ogni feed, è un montaggio narrativo che ci restituisce un mondo parziale, selettivo, orientato. Progressivamente ciò che vediamo sui social diventa il metro attraverso cui interpretiamo il reale. La nostra mappa mentale si adatta ai confini di ciò che ci viene mostrato. In altre parole: i social non solo raccontano il mondo, ne disegnano i confini.
Che ripercussioni può avere tutto questo sul nostro benessere mentale?
Quando la realtà viene ridotta a una rappresentazione filtrata e l’identità viene compressa in un’immagine da esibire, il nostro equilibrio psicologico si trova sotto pressione. L’insoddisfazione cronica, il confronto costante con vite apparentemente migliori, l’ansia da prestazione e il bisogno ossessivo di approvazione diventano compagni silenziosi delle nostre giornate. Sul lungo periodo il rischio è quello di un impoverimento emotivo, di una fragilità dell’io che si manifesta attraverso stati d’ansia, depressione, disturbi dell’autostima. L’invisibile fatica del «restare all’altezza» diventa una condizione esistenziale diffusa.
Quanto finora visto, per chi vale? Per i ragazzi e i giovani o anche per gli adulti?
Se è vero che i giovani, nel pieno del processo di costruzione identitaria, sono più esposti agli effetti distorsivi dei social media, è altrettanto vero che anche gli adulti non sono immuni. Per i giovani, il rischio è di costruire la propria identità su fondamenta fragili, basate su parametri esterni di approvazione. Per gli adulti, il pericolo risiede nella perdita del senso critico, nella ricerca tardiva di una visibilità che sopperisca a insicurezze latenti o a insoddisfazioni esistenziali. Le dinamiche cambiano nelle modalità, ma il bisogno sottostante, quello di essere visti e riconosciuti, rimane universale e pervasivo.
In conclusione, come definirebbe l’impatto che i social hanno sulla nostra vita?
L’impatto è profondo, strutturale, ineludibile. I social media agiscono come forze carsiche: invisibili in superficie, ma potenti nella trasformazione del nostro modo di essere, di sentire, di pensare. Non sono né buoni né cattivi in sé: il loro effetto dipende dall’uso consapevole o inconsapevole che ne facciamo. Sono strumenti straordinari di libertà, ma anche potenziali strumenti di alienazione. In definitiva, i social media sono lo specchio di una condizione più grande, quella di un’umanità che cerca, nel riflesso degli altri, la conferma di sé. E che, per non perdersi, deve imparare a guardarsi dentro prima che fuori.
Cosa fare affinché l’uso dei social media sia consapevole?
Innanzitutto l’educazione ai social media deve essere considerata una forma imprescindibile di educazione civica. Non basta «sapere usare» questi strumenti: occorre sapere pensare nel loro ambiente. Insegnare un uso consapevole dei social significa educare alla capacità di distinguere tra apparenza e sostanza, tra bisogno di approvazione e autenticità, tra libertà di espressione e responsabilità comunicativa. In questo senso, i social media rappresentano una straordinaria occasione: essi ci obbligano a riflettere su chi siamo, su come costruiamo le nostre relazioni, su quale società vogliamo abitare. Non si tratta di demonizzarli né di esaltarli ingenuamente, si tratta di abitare il digitale con la stessa dignità e profondità con cui vorremmo abitare il mondo reale. E la sfida non è solo tecnica, è profondamente umana.