Il macchinista ticinese ucciso dai caccia americani

«Non guardano tanto per il sottile, i caccia. Un pomeriggio, sbucati dalla collina di Quarcino, hanno fatto un giro sopra i tetti e all’altezza della parrocchiale uno di loro si è sganciato dalla squadriglia e ha dato una mitragliata allo scalo merci, forse convinto di colpire un convoglio di armi tedesche: invece ha colpito un macchinista di qui, falciato dalla raffica mentre faceva manovra». C’è modo e modo di raccontare un fatto storico, in letteratura ma anche nel resoconto storiografico più responsabile e preoccupato di aderire alla verità. Questo è uno di quei modi e sta all’inizio di un antico racconto di Alberto Nessi.

Poi ci sono i fatti. Quelli documentati che concernono le violazioni dello spazio aereo svizzero a carico di velivoli americani nei primi due mesi del 1945, tre a Chiasso nel breve periodo di tre giorni, e gli atti di aggressione armata che causarono in Svizzera la morte di 26 persone e il ferimento di una quarantina, oltre a danni materiali. I destini di una di queste persone e della sua famiglia sono raccontati in questo nuovissimo libro Mio nonno non è una locomotiva di Silvana Bezzola Rigolini (Bellinzona, Salvioni Edizioni, 2025, con testo introduttivo di Alberto Nessi), figlia del figlio dell’unico ferroviere macchinista svizzero ucciso durante la Seconda guerra mondiale.

È dunque la storia del nonno della narratrice, che si chiama Lindoro, ed è anche la storia di una specie di compatibilità della sua tragedia con un contesto storico e oggettivo più ampio, nel quale cercare di collocarla. Di più, è il resoconto della ricostruzione di quei fatti attraverso la memoria, o meglio le differenti memorie possibili: personali, cognitive, documentarie, testimoniali, fotografiche. «Volevo ricostruire la storia di mio nonno sulla base dei documenti ufficiali, ma senza trascurare quell’aspetto umano non meno importante eppure in gran parte ignorato dai libri di storia. Il destino individuale, la memoria personale all’interno della grande storia e la memoria transgenerazionale dietro quella ufficiale».

Quindi, questo testo ci rende conto di visite negli archivi lontani o più prossimi, della consultazione di articoli di cronaca dei giorni della tragedia, di una intera pubblicazione dedicata al destino del povero Lindoro edita nella Svizzera romanda, di testimonianze raccolte direttamente presso amici e persone vicine, spesso esercitando rituali di amicizia e affetto all’interno dei quali emergono per gradi memorie, testimonianze, documentazioni minute. Colpisce l’effetto prodotto sulla narratrice da uno dei bossoli dei proiettili ritrovati dai ragazzini nei prati circostanti la stazione ferroviaria e recapitatole per posta da un testimone; un valore di prova così vivida ed evocativa da risultarne tra tutte quella più esplicita e clamorosa.

Nella ricchezza di diverse fonti, percorre l’intero libro l’attenzione privilegiata alla documentazione fotografica, praticata oltretutto con competenza e passione. Delle persone ritratte viene indagato ogni particolare, non da ultimo la direzione dello sguardo, l’oggetto dell’attenzione dei protagonisti di quelle istantanee: del funerale di Lindoro sono conservate sette immagini «inserite in un album color marrone»; gli sguardi degli astanti sono puntati sui due figli, che avanzano affiancati senza guardarsi; di uno sono rilevati «i lineamenti quasi femminili, che non lasciano trasparire quasi nulla». Un’altra fotografia (ma sono molte le occasioni) rappresenta un ritratto di famiglia, «otto occhi che mi scrutano, ne sono un po’ intimorita». In questi casi non può non tornare alla mente – sia concesso il pensiero laterale – un saluto a una delle idee più affascinanti della semiotica moderna, l’attacco della Camera chiara di Barthes. Ecco le parole, tenere e dolenti, del maestro: «un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell’ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre mi dissi: “Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore”».

Nel vasto sondaggio delle memorie possibili c’è l’indagine che è premurosa e insieme quasi scientifica sulla memoria cognitiva del padre-figlio, anziano e affetto da una malattia cerebrale che sonda e rastrella rimozioni e memorie antiche. Soprattutto qui: «la malattia che sconvolge i sentieri della memoria ha riparato la ferita, quella che emerge quando il presente se ne va e il passato diventa presente». E qui: «l’amigdala, parte del sistema limbico cerebrale sede della memorizzazione dei ricordi associati a eventi emotivi, si consumava inesorabilmente. L’ippocampo, sede della memoria a breve e lungo termine oltre che della memoria spaziale e di orientamento, stava mescolando le carte della percezione, stravolgendo tempo e spazio».

La ricerca della verità per le vie più varie è costante e determinata, e si ferma soltanto davanti a una tra le dimensioni individuali più critiche, quella dell’identità del pilota autore del gesto: raccolte tutte le informazioni, la ricercatrice rinuncerà a fornirle a chi saprebbe rivelarle quel nome, chiedendosi a che cosa sarebbe, in fondo, servito. Anche qui, la tensione tra individui e storia collettiva pare forse insopportabile e alla dimensione privata si sceglie di privilegiare altre necessità.

Insomma, questo libro è principalmente il triste ricordo di un fatto familiare tragico ma è anche, e forse soprattutto, un sondaggio dei protocolli di memoria: da quelli individuali, a quelli famigliari, a quelli ufficiali, documentali, percettivi, intuitivi, cognitivi, testimoniali. L’inventario puntuale delle diverse prospettive dalle quali guardare un fatto, per cercare di leggerne caratteristiche e sedimenti qualificanti. Tutto l’occorrente per capire e interpretare un episodio e, dunque, per cercare di dargli pace.

Interrogandosi sulla natura del trauma di suo padre, reso orfano troppo presto e oltretutto in quelle circostanze, chi racconta questa storia ha modo di ragionare anche su quali e quante siano le discipline che concorrono nella ricerca di senso: psichiatri sistemisti, neuropsichiatri, filosofi, neurobiologi, specialisti dell’intelligenza artificiale. Colpisce la determinazione nell’esame, attraverso tutti i mezzi possibili, delle personalità, dei visi, delle abitudini e delle passioni, per dare un volto e un carattere a queste care ombre.

L’ultima parte, per contro, ci riconduce alle parole di Alberto Nessi qui in apertura, e descrive l’immediatezza dei fatti: è una maniera tutta letteraria e lontana dai documenti di dare respiro a quella vicenda e renderla con le parole libere della letteratura e dell’impressione estetica. Il registro è apparentemente oggettivo, quasi una cronaca. Ma il lettore attento rintraccerà, tra le righe e le frasi, tutta la tenerezza della narratrice che, in capo alle innumerevoli ricerche, può dar voce a una sorta di sereno e consapevole dolore, suo e dell’intera sua famiglia.

Infine, quasi a riproporre quella vertigine disorientante del confronto tra le scale di questo libro, quella che richiama l’intimità famigliare e quella che fa i conti con gli accadimenti della storia di tutti, è commovente e insieme emblematico l’episodio nell’ambito dell’indagine svolta, della ricezione sul PC della narratrice, sospesa per tutto il racconto dentro e fuori la Storia, di una mail del presidente Barack Obama in nome del popolo americano. Sembra infatti che, all’epoca, l’ufficio del presidente fosse solito scegliere un paio di corrispondenti cui rispondere tra la moltitudine di lettere pervenute ogni giorno alla Casa Bianca. Scrive Barack, in risposta alla narratrice Silvana: «Credo che tutti noi abbiamo il potere di perseguire il mondo al quale aspiriamo. Le nostre differenze, se unite da ideali condivisi, ci fanno diventare più forti».

Insomma, leggete, per tanti motivi, questo libro.

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