Il cotto esterno stravissuto, sulla terrazza, a spina di pesce, in una certa zona da scovare in mezzo ai tavolini, è la grande minuzia. Muzio è l’architetto, 1923 l’anno, Bonacossa l’uomo dietro le quinte di questo mio tesoro mattinale catturato appena arrivato, di buon’ora, per il primo turno del trofeo Bonfiglio, al tennis club Bonacossa. Grosso personaggio, il conte Alberto Bonacossa (1883-1953): chiamato per il tennis alle olimpiadi di Anversa del 1920 dove trionfa Suzanne Lenglen detta La Divine, campione di pattinaggio artistico, motociclista, alpinista, traversata record del lago di Zurigo, calciatore del Grasshopper, proprietario della «Gazzetta dello sport», altre cariche di presidente o cos’altro che m’intessano meno. È lui – il cui volto signorile con i capelli tirati all’indietro vedo adesso in una delle fotografie incorniciate alle spalle del bancone del bar dove bevo al volo un caffè – a chiamare, per la nuova sede del tennis fondato nel 1893, Giovanni Muzio (1893-1982). Reduce dalla Ca’ Brütta (1921) com’è nota la sua opera prima-scandalo all’epoca e manifesto architettonico del Novecento milanese, futuro autore del Palazzo d’Arte per la Triennale, una palazzina in via Ampère avvolta dal verde settantaquattro anni prima della farloccata conosciuta come Bosco Verticale, chiese slanciate, l’Angelicum, magnifico, forse il suo capolavoro.
Dal bar sbuco nella hall con pavimento a mosaico, falsi marmi, lampadari in bronzo, giovani promesse del tennis svaccate sui divani. Lancio uno sguardo verso uno scalone in legno dal sapore inglese centenario: scorcio-lampo che si sposa bene con non so quale pianta rampicante che ammanta, fuori, la prima saletta circolare della clubhouse dal vago gusto neopalladiano. La cui inquadratura migliore, in faccia alla terrazza in cotto come le scale e il camminamento curvilineo d’entrata, si trova sul campo uno. Color giallino maionese, la struttura si basa su due rotonde ai lati con le finestre bianche e il grigio di colonne-lesene, frontoni triangolari intervallati a quelli a mezzaluna, un fregio decorativo con ellissi iscritte in rettangoli, balaustre in cima al tetto. Alcune nicchie. Tutto mi pare tenue, come di sottofondo, un’architettura-acquarello. «Non sfarzo lungo le prospettive principali, né leziosaggini nemmeno nei recessi più reconditi ma dovunque un che di intimo, di raccolto e di accogliente» osserva Carlo Alberto Felice nel suo articolo apparso su «Domus» dell’agosto 1931: Il tennis club Milano di Giovanni Muzio. Ma lasciamo perdere l’architettura di questo tennis club storico ribattezzato poi Tennis club Milano Alberto Bonacossa e dedichiamoci al sessantacinquesimo trofeo Bonfiglio, gli internazionali d’Italia juniores che tra un quarto d’ora, alle nove di lunedì diciannove maggio, inizieranno su dieci campi contemporaneamente. Qui sono passati Becker, Edberg, Lendl, Djokovic, Federer, Sinner. Molte rose noto in giro, spettatori non ancora tantissimi, mi siedo sul centrale, vuoto con le gradinate color lattementa slavato, dedicato a Gilberto Porro Lambertenghi. Co-autore, assieme all’infaticabile Bonacossa, del primo manuale italiano di tennis intitolato Il tennis (1914).
Il sedicenne Gribaldo, a cui non davo una lira per via delle braccia come grissini, doma il più massiccio ma meno sveglio sudafricano Doig in due set. Dal centrale, posizionato di sbieco all’angolo tra viale Monte Ceneri e via Monte Generoso – mini sprazzo di odonomastica ticinese nei dintorni con anche le vie (private) Bellinzona, Locarno, Chiasso, e Piazzale Lugano – scopro la pagoda. Una postazione tipo club méditerranée dove si vedono diversi campi e si ritrovano alcuni drogati di tennis solitari come me. Uno mi racconta di quando «Omar Camporese sul centrale di Roma stava battendo Wilander poi vede in prima fila la Dellera con una scollatura epica e non vince più un game».
Torno venerdì per i quarti di finale, un po’ più tardi, però in tempo per ammirare il rovescio a una mano stile Steffi Graf di Lilli Tagger. Assaporare l’ombra dell’ailanto sul centrale, l’odore dei suoi fiori e l’arietta particolare in quella posizione vista palazzi e sopraelevata dove il traffico scorre verso il ponte della Ghisolfa che ha dato il titolo a un libro di racconti di Testori. Sbirciare, nella saletta speciale riservata ai soci, due signore anziane giocare a bridge o burraco.