La fine del soft power americano

by Claudia

«Credo che Donald Trump non abbia capito che cos’è il soft power», ha detto qualche tempo fa Joseph Nye, il professore di Harvard che nel 1990 coniò l’espressione soft power: «Ripensate alla Guerra fredda, allora la deterrenza nucleare Usa e le truppe americane in Europa erano cruciali. Ma quando il muro di Berlino crollò, non fu l’artiglieria a tirarlo giù. Venne giù per via dei martelli e dei bulldozer delle persone le cui menti erano state cambiate da Voice of America o dalla Bbc». Nye è morto lo scorso maggio, a 88 anni, e nei tanti necrologi che gli sono stati dedicati ricorreva proprio questo tema: Trump sta distruggendo il soft power americano, che è una risorsa preziosa per gli Stati Uniti ma lo è stata moltissimo anche per il resto del mondo. Il presidente americano ha smesso di promuovere la democrazia nel mondo; ha tagliato gli aiuti internazionali ai popoli in guerra e in povertà; ha licenziato dipendenti di Voice of America, Radio Free Europe, Radio Liberty e di altre emittenti che erano nate nell’immediato dopoguerra all’interno di quella che allora veniva chiamata «la crociata per la libertà», per dare voce ai dissidenti e agli oppressi del mondo non (ancora) libero; ha tagliato i fondi per la ricerca e lo sviluppo e sta rendendo la vita impossibile agli studenti e ai ricercatori stranieri nelle università e nei centri di ricerca Usa.

Lo scontro con l’università di Harvard, l’ateneo più ricco del mondo, si colloca in questo smantellamento rapido del soft power americano. Ci sono temi specifici: la volontà dichiarata dall’Amministrazione Trump di sradicare l’antisemitismo e l’ideologia woke ad Harvard e negli altri campus, ma il progetto è più ampio, lo ha detto lo stesso presidente, lasciando intendere che la lotta agli studenti stranieri è fatta a difesa degli studenti americani, come se i primi rubassero posti ai secondi. La segretaria alla Sicurezza interna, Kristi Noem, ha affermato che il Governo deve avere la possibilità di controllare chi sono gli «alieni» che vanno a studiare ad Harvard, è un suo diritto, visto che l’università prende fondi pubblici. Noem, come molti altri ministri, ha qualche problema a riconoscere i valori e i diritti su cui si fonda l’America e il mondo libero. In un’audizione al Congresso, Noem ha dato questa definizione dell’habeas corpus: «È il diritto costituzionale che ha il presidente di poter espellere le persone da questo Paese». È vero l’esatto contrario, come le ha detto la senatrice democratica che le aveva fatto la domanda: «No, non è corretto, l’habeas corpus è il diritto fondamentale che divide le società libere, come l’America, dagli Stati di polizia come la Corea del nord». Questo scambio non proprio rassicurante permette di comprendere lo scontro tra l’Amministrazione e Harvard: non è, come vogliono far sembrare i trumpiani, una lotta contro l’università dei ricchi che vuole approfittare dei fondi pubblici per portare avanti idee antisemite o woke.

È un riposizionamento ideologico dell’America e del suo potere «dolce», che ora smette di portare conoscenza, innovazione e libertà nel mondo ma si richiude, pensando – come dice Trump – di aver fatto già abbastanza o, peggio ancora, che la repressione della libertà nel mondo non sia più un suo problema. Così un Paese che è stato un rifugio sicuro per la dissidenza globale – senza quel porto in cui approdare, ad esempio, gran parte delle idee, della scienza, degli intellettuali europei sarebbe stata spazzata via dai totalitarismi del Novecento – ora diventa inaffidabile e ostile. Ma il nostro ordine globale si fonda proprio sulla capacità degli Usa di esercitare il proprio soft power, di metterlo a disposizione degli alleati e delle persone che vivono sotto a regimi autoritari, di attirare e di proteggere. Senza questo ombrello ideale, l’Occidente rischia di spezzarsi, perché se è vero che l’Europa può compensare in parte l’assenza del rifugio americano, è anche vero che la potenza fintamente soft della Cina è già molto più avanti. Il paradosso sta nel fatto che, proprio come è accaduto con i dazi, l’America in questo modo fa male a sé stessa: l’eccellenza di cui dispone non è per forza autoctona, il fatto di essere sempre stato il Paese dei desideri ha contribuito a farla diventare un tempio del sapere e della conoscenza di cui è difficile fare a meno. Basti vedere il dollaro, che non è più considerato all’unanimità la valuta-rifugio, quanti mal di testa sta causando all’Amministrazione Trump. Ma il presidente finge di non vedere che nella difesa di un interesse comune – la libertà, la democrazia – sta anche la difesa dell’interesse nazionale, e distrugge entrambi.