L’America latina continua a sanguinare

Buio pesto per i diritti umani in America Latina. Le analisi economiche continentali parlano di decennio perduto per sottolineare i conti pessimi della maggior parte dei Paesi, a parte il gigante brasiliano. Ma l’emergenza latinoamericana al momento non è soltanto l’economia ma lo stato pessimo dei diritti umani che le fragili democrazie del Continente avevano cominciato a conquistare appena uscite dal ciclo delle dittature degli anni Settanta fino alla metà degli Ottanta. Per alcuni Paesi latinoamericani, regimi dispotici e assenza dei diritti civili sono ancora la quotidianità con cui convivere giorno per giorno. Dal Venezuela al Nicaragua, passando per Haiti, Cuba, Ecuador, El Salvador, Perù o Argentina, il deterioramento democratico in America Latina è «dilagante» nel 2024, secondo i dati della ong Human Rights Watch. Il rapporto mondiale 2025 fotografa in 550 pagine la situazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali in più di un centinaio di Paesi, la situazione in America Latina è appunto peggiorata.

La situazione più preoccupante è quella dell’Argentina, non perché lì si stia peggio che altrove ma perché l’ideologia di estrema destra del presidente Javier Milei, su modello di Trump, indica il rischio di un’esplosione sociale. Milei ha replicato in Argentina quel che era fallito in Brasile con il Governo Bolsonaro, poi travolto dalle elezioni che hanno riportato al potere (nel 2023) l’ex presidente Lula Da Silva, fondatore del Partito dei lavoratori e simbolo della sinistra continentale. Tra l’altro ora sappiamo di più sul tentativo di Bolsonaro di ordire o promuovere un colpo di stato per annullare la vittoria di Lula. Il Governo di Milei ha in comune con quello di Bolsonaro un programma basato su un feroce anti-comunismo, che non è tanto collegato alla realtà, ma che è efficace come retorica per i militanti estremisti di destra ai quali è rivolto. Inoltre sia Milei sia Bolsonaro hanno ritenuto conveniente tentare di riabilitare nel discorso politico le sanguinarie dittature militari argentina e brasiliana degli anni Settanta. Milei, ad esempio, ha dedicato momenti dei suoi discorsi pubblici a mettere in discussione il numero dei desaparecidos e il suo vicepresidente ha visitato in carcere criminali del regime militare. L’ Argentina, che settimana scorsa ha confermato la sua uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità, continua a vivere una profonda crisi. Amnesty International, nel suo «Rapporto 2024-25», esprime grande preoccupazione: «L’accesso all’aborto è rimasto pieno di ostacoli»; sono stati decisi «tagli agli investimenti nella sanità e nell’istruzione» in un contesto in cui i diritti di bambini e adolescenti vengono sempre meno protetti; «una nuova legislazione ha legalizzato la sorveglianza di massa»; «sono aumentati i protocolli repressivi contro le manifestazioni pubbliche»; «a partire dall’inizio, nel 2023, dell’Amministrazione del presidente Milei, quasi 30 giornalisti e giornaliste hanno subito vessazioni e violenza sui social media e sui media da parte del presidente o di altre autorità»; «il Governo ha adottato misure regressive nella lotta al cambiamento climatico, tra cui una legislazione per autorizzare la deforestazione…»

A questi tragici interpreti della destra estrema latinoamericana fanno da contrappunto due autocrati di stampo castrista, Daniel Ortega in Nicaragua e Nicolás Maduro in Venezuela, che sono già riusciti effettivamente ad asfissiare i loro Paesi: Nicaragua e Venezuela sono infatti regimi dispotici di violenza brutale, dove ogni giorno c’è una libertà in meno, le cui prigioni sono piene di prigionieri politici e in cui giornali, blog e tv sono controllati ne non chiusi. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha aggravato la situazione in America Latina. L’autoritarismo e il deterioramento della democrazia sono «avanzati in modo dilagante», insieme alla corruzione, alla perdita di indipendenza giudiziaria e alla crescita del «fenomeno parallelo» del crimine organizzato, ha detto alla France press Juanita Goebertus, direttrice della Divisione delle Americhe di Human Rights Watch. Anche se la situazione di Venezuela, Cuba e Nicaragua – «tre dittature assolutamente consolidate» – non è la stessa di quella di Haiti: un Paese in balia di bande criminali che seminano il terrore di fronte all’assoluta assenza di uno Stato. L’insediamento di Nicolás Maduro in Venezuela il 10 gennaio dell’anno scorso, nonostante le indicazioni di frode nelle elezioni del 28 luglio, «è il risultato finale di un’elezione che ha apertamente ignorato la volontà del popolo, e consolida l’autoritarismo in Venezuela», dice. I risultati delle recenti elezioni per il rinnovo del Parlamento e di quelle amministrative consolidano il potere del gruppo di militari al potere di cui Maduro è più ostaggio che referente.

In Nicaragua l’esercizio dittatoriale del potere di Daniel Ortega e Rosario Murillo «ha ampliato l’uso dell’esilio forzato e la revoca della cittadinanza come modi per perseguitare i critici», nota Human Rights Watch (Hrw). Dal 2018 il Governo ha chiuso oltre 5600 ong e 58 media, nonché università. Più di 263 giornalisti sono fuggiti dal Paese, di cui 26 nei primi sei mesi del 2024. Quasi 3000 minori sono stati arrestati a El Salvador. Hrw avverte che in Messico, all’estrema violenza del crimine organizzato, si aggiunge «l’abuso generalizzato da parte di agenti statali, con quasi totale impunità». Allo stesso modo dice che i recenti cambiamenti costituzionali per rafforzare il ruolo dell’esercito nel lavoro di polizia e per rivedere il sistema giudiziario potrebbero «perpetuare gli abusi e minare gravemente lo stato di diritto».

In Colombia, nel frattempo, gli abusi dei gruppi armati, l’accesso limitato alla giustizia e gli alti livelli di povertà, in particolare nelle zone rurali, delle comunità indigene e afro-discendenti preoccupano Human Rights Watch, nonostante la recente ratifica dell’accordo di Escazú (per la protezione dei diritti dei difensori dei diritti umani in materia ambientale) da parte del governo di Gustavo Petro. In Perù il Governo «ha avallato» attacchi perpetrati dal Congresso che ha approvato leggi che «minano l’indipendenza giudiziaria, indeboliscono le istituzioni democratiche e ostacolano le indagini sul crimine organizzato, la corruzione e le violazioni dei diritti umani». Da parte sua, l’Honduras continua a lottare contro la corruzione diffusa, alti livelli di violenza e attacchi contro i difensori dell’ambiente. Per quel che riguarda il Brasile, dopo l’arrivo di Lula da Silva alla presidenza sono state registrate notizie positive come la caduta del 30% della deforestazione dell’Amazzonia, o l’approvazione di leggi per proteggere i diritti digitali dei bambini, ma i dati ufficiali dicono che la polizia aveva ucciso (dati fino a settembre 2024) 4565 persone, più dell’80% dei quali sono di pelle nera.

Alle minacce ai diritti umani si aggiungono la «maggiore sofisticazione e interiorizzazione» del crimine organizzato e le risposte governative «molto inefficaci», ricorda Goebertus. È il caso del «populismo punitivo» praticato da El Salvador, dove in due anni e mezzo sono state arrestate 83’000 persone e 300 sono morte in prigione, «senza che ci siano stati un processo e delle indagini serie». O in Ecuador, che da un anno è in stato di emergenza con un aumento esponenziale dei casi denunciati «di uso eccessivo della forza, torture, sparizioni ed esecuzioni extragiudiziali». «Abbiamo politiche a breve termine basate sull’incarcerazione di massa, ma senza una reale capacità di indagine tecnica giudiziaria per svelare le strutture», nota Hrw, che chiede «investimenti a lungo termine» per «rafforzare la capacità di amministrazione della giustizia reale».

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