Da sempre ridere è un atto liberatorio. Ma non sempre ricordiamo che chi ci fa ridere è anche, talvolta, chi più lucidamente ha denunciato ingiustizie, svelato ipocrisie, affrontato i potenti. I comici, in certi momenti storici, sono stati ben più che intrattenitori: hanno contribuito a cambiare il corso delle cose. Un esempio su tutti? Gli Stati Uniti d’America.
A lungo dominata dalla segregazione razziale sancita dalle leggi Jim Crow, l’America del Dopoguerra era un Paese formalmente democratico ma profondamente diviso. I diritti civili degli afroamericani erano negati con ostinata assiduità, anche dopo la storica sentenza Brown vs. Board of Education (1954) che dichiarava incostituzionale la segregazione scolastica. Eppure, a innescare un’accelerazione verso la parità fu anche – a sorpresa – la comicità.
Prendiamo Dick Gregory. È il 1961 quando si esibisce al Playboy Club di Chicago. Di fronte a un pubblico composto da uomini d’affari del Sud bianchi, pronuncia una battuta del repertorio di un altro comico nero, William Ashcan Jones, che vent’anni prima l’aveva concepita, però, per un pubblico prevalentemente nero che frequentava teatri come l’Apollo di New York, formato da persone da poco emigrate al Nord in cerca di lavoro e di sollievo dagli Stati più segregazionisti: «Qui non serviamo persone di colore», dice un cameriere. Gregory risponde: «Va bene, non mangio persone di colore. Portami un pollo fritto intero». Una gag. Ma anche un cortocircuito politico, sociale e culturale. Gregory diventa il primo comico nero a portare l’umorismo razziale nella cultura mainstream, e da lì a poco sarà in prima fila nelle marce del movimento per i diritti civili, fino alla storica marcia su Washington del 1963.
Prima di quella storica esibizione al Playboy Club di Chicago, la comicità afroamericana aveva dovuto trovare un proprio spazio nei teatri di quartiere, nei locali notturni clandestini, nelle incisioni dei cosiddetti party album. Artisti come Redd Foxx, Nipsey Russell e Slappy White sfidavano gli stereotipi, criticavano apertamente il razzismo e la morale dominante, e lo facevano con intelligenza, provocazione e ironia. Ma sempre di fronte a un pubblico formato da uomini di colore e da uno sparuto di bianchi curiosi. L’umorismo diventava così un modo per capire, esorcizzare, condividere: un linguaggio accessibile anche a chi non aveva altre forme di rappresentanza. Ma non ancora un ponte tra gruppi razziali che rimanevano lontani anni luce.
Il comico nero, insomma, si muoveva in bilico tra accettazione e resistenza, rappresentazione e censura. Finché, proprio grazie a figure come Gregory, l’umorismo divenne un linguaggio rispettabile anche per l’America bianca. Gregory rinunciava alle volgarità sessuali – ingrediente immancabile negli spettacoli «clandestini» pensati per un pubblico nero – ed evitava i cliché dei minstrel show, scegliendo invece di parlare con tono pacato ma deciso, puntando a colpire il bersaglio senza inviare messaggi di odio. E soprattutto, non si limitava al palcoscenico: marciava, scriveva, denunciava, aiutava concretamente le persone, neri e bianchi, vittime della povertà e dell’emarginazione.
Il suo successo aprì la strada a molti altri: i club, i produttori, i media iniziarono a cercare altri comici neri. La comicità afroamericana entrava nel circuito ufficiale, diventava un’industria, ma anche una forza culturale e politica capace di raccontare l’America vera, con tutte le sue contraddizioni.
E questo non è accaduto solo negli Stati Uniti. Nel mondo, altri comici hanno saputo esercitare un’influenza simile. Beppe Grillo in Italia, prima di darsi alla politica, scardinava dogmi con monologhi spiazzanti. E ancora, comici come l’inglese Mark Thomas che usa il formato del documentario comico per denunciare le multinazionali, la corruzione e la sorveglianza governativa; il comico Zarganar che è diventato il simbolo della resistenza culturale alla dittatura birmana; Bassem Youssef, il «Jon Stewart egiziano», che ha dovuto riparare negli USA per la sua satira contro i regimi egiziani della post-Primavera Araba; lo stand-up comedian di origini azere Idrak Mirzalizade, espulso dalla Russia dove ha denunciato episodi di razzismo… e tanti, tanti altri che continuano a sfidare il potere con battute, parodie, vignette e strali più o meno espliciti.
A dimostrazione di come ancora e soprattutto oggi, in un mondo iperconnesso e dalle mille fibrillazioni, il ruolo del comico resta centrale. Perché quando le parole scottano, quando la politica tace o si fa ambigua, è spesso il comico a dire ciò che tutti pensano ma nessuno osa pronunciare. E allora sì, ridere può diventare un atto sovversivo. O persino rivoluzionario.