Quell’Everest sempre più commerciale

Ogni anno, all’inizio della primavera, alpinisti e responsabili delle agenzie specializzate nelle spedizioni sull’Everest guardano il meteo: c’è un momento preciso in cui le correnti di aria gelida si spostano e si apre la finestra meteorologica perfetta per consentire l’accesso alla cosiddetta «zona della morte», quella oltre i settemilanovecento metri, un passaggio obbligato e pericolosissimo per raggiungere le vette più alte dell’Himalaya. Ma il turismo intensivo e i cambiamenti climatici stanno rendendo l’ascensione alla montagna più alta del mondo (8’848 metri) sempre più complicata: ogni primavera si diffondono online le fotografie di passaggi critici come il Colle Sud e l’Hillary Step intasati dai cosiddetti «turisti della montagna», facilitati nell’impresa sia dagli sherpa – le guide in alta montagna dell’omonimo gruppo etnico nepalese – sia dalle agenzie specializzate che promettono di far vivere l’esperienza anche a scalatori inesperti.

Da anni si parla di una possibile riforma delle regole per accedere alla vetta: a fine aprile il Governo del Nepal, che ospita otto delle quattordici montagne più alte del mondo, tra cui l’Everest, ha annunciato una serie di misure nel tentativo di ridurre i problemi legati all’overtourism. Anzitutto, il costo del permesso per l’ascensione, a partire da settembre di quest’anno, aumenterà del 36%, passando da 11 mila a 15 mila dollari. Ma è allo studio anche una legge che potrebbe rendere obbligatorio, per arrivare alla cima dell’Everest, dimostrare di aver scalato almeno una montagna da settemila metri.

Secondo l’agenzia di stampa indiana Ndtv, «il Nepal è stato criticato per aver permesso a troppi alpinisti inesperti di scalare l’Everest». Nel 2023 il Governo ha rilasciato 478 permessi: nello stesso anno almeno 12 alpinisti sono morti durante la scalata e cinque sono dispersi. L’anno scorso erano stati otto i morti, e tre i dispersi. «Gran parte di questi decessi sono avvenuti nella cosiddetta “zona della morte”, vicino alla vetta», riporta la Ndtv, «dove l’ossigeno è scarso e spesso si creano delle code». E tutti ricordano il 23 maggio del 2019, quando – per le condizioni meteo variabili – 354 persone raggiunsero la vetta nello stesso giorno, un record assoluto: tre scalatori morirono. Quest’anno l’allerta è alta: la stagione di scalata è appena iniziata, e finora Katmandu ha rilasciato 402 permessi, che si prevede supereranno i 500 tra maggio e giugno.

C’è un motivo: il Nepal, Paese stretto fra India e Tibet, fra l’influenza di Delhi e quella di Pechino, dipende dal turismo di montagna internazionale per le sue riserve di valuta straniera. E molti nepalesi, legati alla sacralità dell’alpinismo, denunciano l’eccessiva commercializzazione che, negli anni, ha trasformato la catena montuosa himalayana. La scorsa settimana, un sondaggio lanciato dal «Kathmandu Post» ha rivelato che quasi il 46% dei lettori ritiene che l’ascensione dell’Everest sia una questione «di fama più che di scoperta». Per il 42%, invece, «il vero problema è la commercializzazione». Come quella di cui si è discusso nelle ultime settimane: la «7-Day Mission Everest», l’idea di quattro britannici di compiere il record (per beneficenza) di partire da Londra, conquistare la vetta della montagna più alta del mondo e tornare a casa nel giro di una settimana.

Ci sono riusciti, anche grazie all’inalazione del gas xeno, considerato dopante nell’arrampicata sportiva, che permetterebbe di evitare le lunghe fasi di acclimatamento nelle tappe intermedie dell’ascensione. «Con il sostegno di anni di ricerca, di protocolli di acclimatazione guidati da esperti, e con il supporto salvavita di un’applicazione d’avanguardia dello xenon, puntavamo a dimostrare che con la tecnologia, la preparazione e l’etica giusta è possibile accelerare le ascensioni – senza rischiare vite», ha detto al suo ritorno il manager della spedizione, Lukas Furtenbach. È un mondo molto diverso rispetto a quello dei primi pionieri. Il 29 maggio del 1953 furono il neozelandese Edmund Hillary e la sua guida nepalese Tenzing Norgay a raggiungere per la prima volta la vetta dell’Everest. Da allora, quasi 9’000 persone ci sono riuscite, e più di 280 hanno perso la vita nel tentativo di farlo. Dopo la prima impresa di Hillary e Tenzing, ci sono voluti altri ventidue anni prima che una donna riuscisse ad arrivare in cima.

Nelle scorse settimane, il Giappone ha celebrato i cinquant’anni dall’impresa dell’alpinista Junko Tabei, che il 16 maggio del 1975, insieme con lo sherpa Ang Tshering, conquistò la cima dell’Everest e divenne una leggenda dell’alpinismo femminile, e più in generale del femminismo nipponico. «Non riesco a capire perché gli uomini facciano tutto questo clamore per l’Everest: è solo una montagna», disse una volta Tabei, che all’inizio degli anni Settanta – quando era già madre di una bambina e cercava fondi per finanziare la sua missione in Nepal – aveva ricevuto molti dinieghi proprio perché l’alpinismo non era considerato un affare per donne. Tabei è morta nel 2016. Anche dopo aver scalato tutti i sette ottomila, continuava a fare da guida sul monte Fuji, la montagna sacra del Giappone. E in un’intervista allo Spiegel di qualche anno fa continuava a minimizzare l’impresa: «Ma quale eroismo! Ho fatto solo quello che volevo». Tabei è un’icona ancora oggi per molte donne e per molti alpinisti, che guardano alla montagna e vedono competizione o profitto. Lei vedeva solo forza di volontà.

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