A oltre 600 giorni dal 7 ottobre la situazione in Israele e Palestina è più drammatica che mai. Mentre si rafforza la condanna del mondo sempre più indignato di fronte alla crisi umanitaria a Gaza, dove ogni giorno adulti e bambini muoiono a causa delle bombe, ma anche della fame e della sete, le famiglie degli ostaggi israeliani sono state abbandonate dal primo ministro Netanyahu che persiste nella propria linea dura nonostante la pressione degli Stati Uniti a raggiungere al più presto un accordo con Hamas. Nel frattempo, in risposta all’agenda messianica dei sionisti religiosi al Governo, che ostentano senza pudore la brama di colonizzare la Striscia, in Israele si levano dure voci di condanna, tra cui quella di Yair Golan, leader del nuovo partito democratico nel quale molti ripongono le speranze per le prossime elezioni. Tuttavia – come dimostrano le marce tenutesi nella Città Vecchia in occasione della Giornata di Gerusalemme (festa nazionale israeliana che commemora la «riunificazione» di Gerusalemme est con Gerusalemme ovest nel 1967), che lunedì scorso hanno offerto al mondo uno dei peggiori spettacoli del fascismo contemporaneo – la battaglia degli oppositori del Governo israeliano è ancora lunga. Netanyahu, dal canto suo, minaccia i Paesi esteri di procedere all’annessione della Cisgiordania qualora riconosceranno lo Stato palestinese come annunciato da alcuni. In un momento in cui l’incertezza domina la scena lanciamo uno sguardo all’arte che denuncia, che getta ponti anche quando la speranza vacilla.
Tel Aviv è da sempre pioniera nel campo della danza contemporanea, nota per aver regalato al mondo artisti come Ohad Naharin, dal 1990 direttore artistico della compagnia Batsheva. Nel mese di maggio, spinti dall’esigenza di dare voce a un grido doloroso per un cessate-il-fuoco immediato a Gaza, per il rilascio di tutti gli ostaggi, per la promozione di un accordo di pace sostenibile e per la costruzione di un futuro di convivenza, i ballerini di Batsheva hanno invitato il pubblico ad una serata di beneficenza dal titolo «Artisti per la pace». In opposizione al ciclo di accuse, violenza e disumanizzazione nel quale la società viene trascinata dal 7 ottobre 2023 (attacco di Hamas a Israele) hanno affermato: «Dobbiamo fare in modo che l’idea di pace non diventi un’idea radicale. Non pretendiamo di cambiare il mondo dall’oggi al domani, ma consideriamo la cultura come una rappresentazione viva e pulsante dello spirito della società e, data la possibilità di scegliere tra il silenzio e un forte grido, scegliamo di alzare la voce e gridare “Basta!”, convinti che ciò possa aprire la strada a un futuro più luminoso».
Durante la serata è intervenuta Sally Abed, una delle principali attiviste di Standing Together, movimento di cittadini israeliani, ebrei e palestinesi, che lottano per la pace, l’uguaglianza e la giustizia sociale. Al fine di trasmettere un messaggio comune di riconciliazione, solidarietà e umanità, buona parte del ricavato dell’evento è stato donato al Families Headquarters for the Return of the Abducted and Missing per il sostegno finanziario ed emotivo degli ostaggi e delle loro famiglie. Per meglio comprendere cosa significa essere ballerini e coreografi a Tel Aviv, incontriamo gli artisti Avi Kaiser e Sergio Antonino, rispettivamente israeliano e italiano, che dal 2002 condividono vita e creatività a cavallo tra Israele e Germania.
Si può dire che cercando di sopprimere la creatività la guerra e la politica finiscono per stimolarla?
Lo scopo di ogni atto artistico non è quello di edulcorare, trasformare o sublimare la realtà. È un dovere, quello dell’artista, di denunciarla e spingere il fruitore dell’arte a compiere un’analisi della storia in cui vive ed agisce. Il tempo dell’ispirazione è finito (o non c’è mai stato): anche quando un lavoro non ha apparentemente un legame col presente, ha sempre in sé l’urgenza di sviscerarlo. È un politico l’artista che «accusa» la realtà, soprattutto quando questa è drammatica, come nel caso di una guerra. C’è sempre stata la tendenza nella storia, da parte dei Governi dispotici e dittatoriali, di soffocare la voce degli artisti, perché forse rappresenta la coscienza del popolo. Ma è proprio in questi paesaggi di repressione che l’artista è chiamato a gridare il suo disappunto.
Com’è cambiato il vostro lavoro dopo il 7 ottobre?
Nulla sarà mai più come prima del 7 ottobre. Questa data rappresenta uno spartiacque. Serviranno generazioni per arrivare di nuovo a spiragli di speranze per un futuro migliore, in Israele e nel mondo. Il nostro lavoro, crediamo, possieda ora la volontà di essere ancora più autentico. È una danza, la nostra, che si mette a nudo e si offre, dialoga col pubblico, mette in dubbio anche sé stessa, se necessario. Il bello fine a sé stesso è inutile.
Il vostro stile nel teatrodanza nasce anche dal confronto e dalla discussione: proprio la vostra diversità è fonte di creatività. Perché la società israeliana è così spaventata dalle diversità al punto da non riuscire più ad integrarle?
La società israeliana non è spaventata dalla diversità; è la sua stessa essenza. Al massimo, la tendenza, forse esagerata, è quella di proteggerla, difenderla coi denti e con le unghie. Dovrebbe forse alleggerire questa tensione e «normalizzare», per non essere esclusiva…
Come affrontate oggi il vostro legame con Israele quando vi trovate all’estero? Percepite un cambiamento da parte del pubblico europeo? Cosa pensate del movimento BDS e del boicottaggio della cultura?
La danza israeliana è molto apprezzata all’estero e finora non abbiamo mai avuto problemi. Bisognerà vedere ora se il movimento di protesta, quello becero e spesso privo di una vera ed attenta analisi della situazione, rovinerà questa stima. Chi boicotta l’arte è uno stupido.
La danza è parte integrante della cultura ebraica religiosa e popolare, in particolare chassidica. Anche durante la Amidà, la preghiera a bassa voce che costituisce il momento più intimo del dialogo con Dio, gli uomini usano dondolarsi avanti e indietro. La spiritualità e la fisicità sono dunque connesse, pensate che la danza potrebbe «curare» la sofferenza che permea lo spazio pubblico dopo il 7 ottobre?
La danza, come il rito, la preghiera, il mantra, la trance sono collegati in qualche modo alla trascendenza… La danza è una forma d’arte che, come ogni forma di espressione, stimola le coscienze. Tuttavia non si tratta di una terapia. La danza-terapia è un’altra cosa.
Dal 2009 uno dei vostri lavori di punta è «At your place», uno spettacolo nato su iniziativa del Ministero della Cultura tedesco allo scopo di portare la danza a casa delle persone, negli spazi privati. Mentre oggi il sistema cerca di sopprimere la curiosità e impedire il dialogo, il vostro tipo di danzateatro mira ad accorciare la distanza con lo spettatore che svolge un ruolo attivo che lo responsabilizza. Pensate che questo modello di condivisione e avvicinamento potrebbe aiutare anche nella relazione tra ebrei laici e religiosi, o tra israeliani e palestinesi?
Un corpo che si muove di solito non mente. Veicola un senso di verità ed autenticità. La danza che esce dai teatri e si avvicina al pubblico, sfondando la quarta parete, può e deve diventare motivo di incontro e di dialogo.
Dove ci conduce la vostra prossima coreografia «Ben Acherim» (lett. «tra gli altri») che andrà in scena a Tel Aviv il 20 giugno prossimo?
«Ben Acherim» è il nostro ultimo duetto e si ispira alla dicotomia tra «essere» e «apparire». Lo spunto è Pirandello e il suo concetto di maschera. Siamo Uno, nessuno e centomila, siamo personaggi in cerca d’autore sul palcoscenico della vita.
Porterete lo spettacolo in Europa?
La prima si è tenuta lo scorso marzo in Germania al DKM Museum di Duisburg. Dopo Tel Aviv a giugno, saremo di nuovo in Germania e forse Parigi.