A volte associazioni casuali spalancano improvvisi squarci di consapevolezza. Mi è successo leggendo l’ultimo libro di Antonio Scurati, M. La fine e il principio, quinto capitolo della formidabile serie dedicata a Mussolini, scoprendo nelle ultime pagine che Junio Valerio Borghese, il «principe nero» del fascismo, leader della famigerata X Mas, ideatore dell’abortito colpo di Stato in Italia del dicembre 1970, fu seppellito nella basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma. La stessa dove poche settimane fa è stato inumato papa Francesco. Il contrasto fra i due personaggi non potrebbe essere più stridente. E dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, in che misura il fascismo sia sopravvissuto a se stesso. L’ultima parte del volume, infatti, indugia sulle modalità di trapasso di buona parte dei gerarchi neri – a volte nel letto sereno di casa – ripartiti da nuove carriere ed esistenze un attimo dopo che i cadaveri del Duce, della sua amante Clara Petacci, e di diversi altri caporioni del fascismo furono vilipesi e poi appesi a testa in giù a Piazzale Loreto. Colpisce, come scrive Scurati, che «la maggior parte dei picchiatori, fucilatori, torturatori, degli assassini fascisti la scampa. Si sottrae alla vendetta quanto alla giustizia».
L’epilogo di Benito Mussolini – nell’ultimo capitolo della serie iniziata nel 2018 con M. Il figlio del secolo e proseguita nel 2020 con M. L’uomo della provvidenza, nel 2022 con M. Gli ultimi giorni dell’Europa e nel 2024 M. L’ora del destino – mostra un uomo incapace di darsi ragione della propria caduta, decretata il 28 luglio del 1943. Agli arresti ci resta poco. Liberato da un blitz dei paracadutisti del Führer e ricongiunto alla sua famiglia, Mussolini si vede assegnare da Hitler uno Stato fantoccio, la Repubblica sociale italiana, che dirige – senza reali poteri – da una villa sul lago di Garda. Apatico, smagrito, depresso, si confida soprattutto con l’amante che gli sbatte in faccia, lettera dopo lettera, lo spettacolo indecoroso della sua sconfitta. Quella raccontata nell’ultimo libro è la fase più atroce del Ventennio, seicento giorni di guerra civile, con le stragi della legione Muti e della banda Koch, la caccia forsennata agli ebrei, le feroci missioni partigiane, le asimmetriche vendette naziste (con un rapporto di uno a dieci; dieci morti per ogni morto provocato dalla controparte) e gli attacchi a tappeto dei bombardieri americani su Milano.
Nella città meneghina, del resto, risorgono i peggiori istinti della bestia ferita che non vuole morire, il fascismo già sconfitto che riparte dalle origini indecenti (non a caso il romanzo s’intitola M. La fine e il principio), da quella Piazza San Sepolcro che l’autore definisce «il nocciolo radioattivo dell’atomica novecentesca, il centro propulsore del mito fascista». Qui, nel 1919, l’allora agitatore politico Benito Mussolini, espulso con ignominia dal partito socialista, aveva offerto un sogno ai «facinorosi, gli spostati, i delinquenti, i delusi, i risentiti, i traditi» sopravvissuti alle trincee della Prima guerra mondiale. Il sogno fascista. Sempre qui, 25 anni dopo, «si incontrano i reduci di quella storia», tra cui Aldo Resega, Vincenzo Costa e Francesco Colombo e rilanciano una squadra d’azione che farà scempio dei nemici, tornando alla violenza sistematica delle origini.
Accetta tutto il Duce, anche i crimini più efferati dei fedelissimi, tipo Colombo appunto, comandante della legione Ettore Muti, già «teppista del Ticinese cresciuto nei bassifondi di Porta Cicca». Non condanna gli eccessi in quanto tali, al massimo critica debolmente le esecuzioni di massa e le campagne di tortura perché poco utili alla causa. Confida all’amante di volerla fare finita, ma alla fine, piagnucolando e lamentando i tradimenti di questo e di quello, pensa solo a sé stesso. La storia di quei seicento giorni è nota. Alla fine scappa sul lago di Como e per non farsi prendere sul camion di tedeschi in cui si nasconde indossa il pastrano nazista. Che non lo salverà. Poi lo vediamo trapassato dai proiettili davanti al cancello di Villa Belmonte, lui e Claretta Petacci, a Giulino di Mezzegra, nell’unico capitolo della sua esistenza ancora avvolto dalle nebbie. «La pietà è possibile, forse è persino dovuta, anche per chi non ne ha quasi mai avuta», concede lo scrittore.
Tutti i dittatori, quasi tutti, finiscono male. Lo abbiamo visto in tempi più recenti con Ceaușescu, Saddam e Gheddafi. Ma dalla violenza della transizione possono rinascere gli incubi. Facendo riferimento al corpo del Duce appeso a testa in giù a Piazzale Loreto scrive Scurati: «La vostra Repubblica nasce qui, su questa piazza, fondata su questo cadavere scannato a un uncino da macellaio (…) e sarà nata qui per sempre (…) non potrete mai cancellare le impronte insanguinate del popolo scaduto a plebaglia che calpesta il suo idolo di ieri». E, allora, tornerà, conclude Scurati. «Tornerà e vi ripeterà sempre la medesima nenia: io sono il popolo, il popolo sono io e al diavolo tutto il resto; il male non esiste, esistono soltanto uomini malvagi con il loro maleficio; la realtà non è complessa, è semplice, è bambina la realtà, tutti i problemi si riducono a uno soltanto, quel problema a un nemico, il nemico a uno straniero, lo straniero a un invasore». Musica del passato?
Scurati ha vinto vent’anni fa il premio Campiello con Il sopravvissuto, e nel 2019 lo Strega con M. Il figlio del secolo. Il suo è stato definito «un esperimento narrativo mai tentato prima nella cultura letteraria italiana», ovvero il racconto del fascismo attraverso le fonti di prima battuta (telegrammi, dispacci, diari, scambi epistolari, articoli di giornale del Mussolini giornalista e direttore de «Il popolo d’Italia»). Con lui è il fascismo a parlare di sé stesso, le sue parole vengono usate dall’autore dentro una trama narrativa potente, e poi «svelate», citazione per citazione, alla fine di ogni capitolo. Scurati è qualcosa di più di uno scrittore di successo. È il Grillo parlante di un’Italia che non ha ancora finito di fare i conti col proprio passato.
Bibliografia
Antonio Scurati,M. La fine e il principio,ed. Bompiani, 2025.