La mia personale sala macchine

Parlaci di te, cerca una volta tanto di essere sincero. Non sono mai stato un maschio alfa. Non sono mai riuscito a farmi piacere il fumo, grave handicap per quelli della mia generazione. Alle feste nelle case dei miei compagni loro ballavano (e fumavano), io cambiavo i dischi. Non sono uno sportivo. Sono monogamo, sposato con la stessa moglie da 59 anni. Troppo faticoso tradire o peggio ancora avere due famiglie. Non ho mai subito fratture di ossa e non ne sento la mancanza. Quarant’anni di Rai e mai un giorno di malattia, se mi alzavo con la febbre, una volta arrivato sul lavoro spariva. Costretto ad andare in vacanza, non vedevo l’ora di ritornare al lavoro, imploravo i miei capi perché mi richiamassero per un caso urgente. Mio padre Mansueto era un bell’uomo, nel vano tentativo di assomigliargli porto i baffetti come i suoi. Adolescente, come molti miei coetanei, ero stregato da Cesare Pavese e ho fatto di tutto per assomigliargli almeno nel fisico, ho simulato un calo di vista per portare occhiali come i suoi.

È il 1952 (avevo 15 anni) quando esce, due anni dopo la sua morte, Il mestiere di vivere, il suo diario. Lo compro con i soldi della paghetta. Me ne vanto con Paolo Conte. Lui: lo sta leggendo mio padre, dice che Pavese non ci sapeva fare con le donne. Torno a casa, gli occhiali finiscono in un cassetto. Non ne usciranno più.

Se mi piaccio? Non mi lamento, poteva andarmi peggio. Non ho mai aspirato a stare sul ponte di comando, il mio posto ideale è la sala macchine e lì, nel fumo e nel vapore, l’aspetto fisico non ha molta importanza. Nanni Loy, per il programma Viaggio in seconda classe di cui ero il produttore, aveva ideato per me una provocazione. Scena: scompartimento con alcuni viaggiatori adulti, e un posto libero. Quando arrivo io vestito e truccato da presidente Leone, un cameriere stappa la bottiglia e me ne versa un bicchiere. Poi esce e inizia la conversazione con i passeggeri costretti dall’aiuto regista a fingere di non avermi riconosciuto. Ve lo siete perso? Ci credo, dato che non l’abbiamo girato. Disco rosso dai vertici Rai, sarebbe stato reato di vilipendio. Avessimo chiesto il permesso al presidente Leone sono sicuro che avrebbe detto di sì. Era un uomo spiritoso, collezionava le vignette che Forattini gli dedicava su Repubblica. Sognavo un invito al Quirinale, la proposta di fargli da controfigura nelle cerimonie di secondo livello, nei pranzi e nelle cene, una croce da cavaliere, la nomina a senatore a vita.

Ho scoperto di essere nato e aver vissuto nel ghetto di Asti fino ai 18 anni leggendo il romanzo I giorni del mondo di Guido Artom (Longanesi 1981). Le nostre case erano collegate da tunnel sotterranei, perfetti per i nostri giochi, allestiti perché gli ebrei, fino alla firma delle Lettere Patenti da parte di Carlo Alberto il 17 febbraio del 1848 non potevano uscire di casa dopo il tramonto.

Molti hanno avuto la fortuna di vivere un’esperienza rivelatrice, un’epifania. Per Fellini è stato lo spettacolo di un circo equestre visto da bambino. Tutti i suoi film hanno in filigrana e possono essere raccontati come esibizioni circensi. Mio padre era un operaio, compositore a mano nella piccola tipografia Segre. (Era il fratello di Pitigrilli, il delatore che per invidia fece mandare al confino il primo gruppo degli einaudiani. Tutto si tiene). Un giorno mio padre mi porta con sé. L’osservo in piedi di fronte a una cassettiera: prende con una pinzetta dallo scomparto di un cassetto caratteri e spazi, mettendoli sul compositoio d’acciaio fino a formare una riga, che depone sul telaio della pagina, inchiostrando e tirando una prima bozza. Era per me l’invenzione della stampa. Da allora ho sempre letto di tutto. Andavo volentieri a comprare le uova, sei per volta, erano impacchettate in fogli di vecchi giornali. Tornato a casa li spacchettavo, mettevo le uova nella ghiacciaia, stiravo quelle pagine e le leggevo da cima a fondo.

Il salto quantico di lettore è merito di zia Emma che mi regala L’isola del tesoro. Robert Louis Stevenson è un narratore. Una specie rara. Poi è arrivata la scoperta di una biblioteca civica che concedeva libri in prestito. Si chiama Alfieri, come tutto ad Asti. Compreso un biscotto, l’Alfierino. Nessuno mi aveva spiegato come si deducevano le collocazioni dei libri dalle schede. All’inizio andavo a tentoni, chiedevo un romanzo e mi arrivava un trattato per la lotta alla peronospora. Che leggevo, naturalmente, dalla prima all’ultima pagina.

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