«Difendiamo il nostro diritto ad esistere»

by Claudia

In Kenya molte famiglie vengono espropriate della propria terra a favore di occidentali e Governo. Ma c’è chi dice no

L’autista mi aspetta all’uscita della stazione di Mombasa, si chiama Tycus, è un ragazzo dai modi dolci, e subito partiamo insieme a Irene Sciurpa del Comitato europeo per la formazione e l’agricoltura (Cefa) per Kwale. Nella città turistica, a parte i resort davanti alla spiaggia bagnata dall’Oceano indiano, tutta la vita pubblica si svolge ai bordi della strada trafficata, piccole rivendite, mercati, posti ristoro e moschee; quella privata è nascosta nelle terre e le case dei villaggi lontani. In un piccolo edificio della città si trova la sede di Smart Move e di Radio Jay, un’associazione di attivisti che grazie a un progetto finanziato da Cefa difende il diritto alla terra. Questa iniziativa, sostenuta dall’Ue come parte del progetto Kujenga-Amani, si impegna a rafforzare la conoscenza delle comunità indigene sui diritti fondiari e a facilitare accesso legale per le comunità più vulnerabili nei distretti di Ukunda e Kinondo. Il loro leader si chiama Jamail Abdallah, un ragazzo barbuto, la testa rasata, quando lo incontro mi spiega che ha fondato l’emittente radio quando aveva 18 anni, «non c’erano molti spazi per i giovani, non avevamo voce nella comunità, e la radio è nata perché ci eravamo stancati di ascoltare la Bongo music, melodica, molto triste, tutto cuore e amore», così hanno cominciato a mettere brani blues, gospel, rock, raggae e regalavano un mp3 per sintonizzarsi. «Abbiamo scoperto che chi ascoltava il rock aveva una sensibilità diversa, si emozionava e diventava più empatico», era il 2007, dopo la violenza post-elettorale il mondo stava cambiando, i ragazzi erano soprattutto online, «una frequenza radio era molto costosa, allora abbiamo scelto di stare sul web». Adesso non fanno solo programmi musicali, ma producono anche podcast su temi sensibili alla comunità, informazioni su come diventare artisti, fotografi, e da una costola della radio nel 2022 è nata Smart Move, che significa «mossa intelligente», perché «tutti possiedono una intelligenza e possono dare un contributo» per fare azioni che producono cambiamento e mettono in moto trasformazioni sociali, sostiene Jamail. Ma ci tiene a precisare che la loro non è una organizzazione politica, «siamo il cane da guardia, i consiglieri della politica, noi viviamo nella comunità e conosciamo i bisogni, cerchiamo interlocutori sensibili». Una delle loro attività è difendere il diritto alla terra, perché qui a Kwale nessun organismo pubblico si preoccupa di informare le persone più vulnerabili sui diritti fondiari e risolvere i conflitti per la proprietà, si tratta di gente povera che non ha studiato e non ha gli strumenti per capire i documenti. Dice che un personaggio del passato che ha ispirato la sua azione è Julius Nyerere, figura storica del socialismo e padre del panafricanismo, «quando gli inglesi volevano dare per prima alla Tanzania l’indipendenza, lui disse di no, o tutti siamo liberi o nessuno lo è, voglio che tutti i Paesi intorno siano liberi e indipendenti».

Jamal ha formato un gruppo di giovani che ha chiamato «champion», attivisti della terra che nei prossimi mesi andranno nei villaggi a informare le comunità, aiutarli nelle questioni burocratiche e legali. Perché questa era la terra dei Digo, uno dei gruppi etnici della costa, protetti dai Kaya, un consiglio di saggi anziani si riuniva nelle foreste sacre chiamate Kaya. Qui la terra non veniva venduta, ma condivisa, affidata e custodita per generazioni. «La terra non è solo una proprietà, è un patrimonio» sostiene Jamail. Oggi le cose stanno cambiando rapidamente: turismo, vendite di terreni e titoli privati minacciano le antiche usanze. Il passaggio dalla legge comunitaria e tradizionale al titolo «statale» ha stravolto i tradizionali rapporti territoriali. Ma la terra diventa anche luogo dell’immaginario e della memoria, incrocia la storia di questo Paese, è il luogo principe dell’esistenza, dove si mette radici, si vive e lavora, e dove ancora è forte il vincolo ancestrale e comunitario. A Kwale adesso c’è un problema molto diffuso, come mi ha spiegato un funzionario del Governo, «puoi trovare intere aree abitate da migliaia di famiglie, ma purtroppo la terra non appartiene a loro», la possiedono ma non l’hanno registrata, oppure è stata sottratta illegalmente e data a occidentali che ci costruiscono resort di lusso per turisti. Qui operava anche un’azienda australiana, la Base Titanium, una miniera di sabbie minerali usate come pigmenti per vernici, carta e plastica, hanno convinto le comunità ad andarsene dando loro un piccolo risarcimento in danaro. Adesso hanno finito di estrarre e se ne sono andati, devono fare le bonifiche, nel frattempo il Governo ha deciso che quello è suolo pubblico, le famiglie che la abitavano non riavranno la terra indietro. I soprusi contro contadini o pescatori indifesi sono all’ordine del giorno come mi spiega Khalifa Marangi che appartiene alla comunità Digo di pescatori: «Noi abbiamo sempre usato le spiagge e il mare, adesso la terra ci è stata rubata da persone potenti, soprattutto dopo l’indipendenza è stata presa dagli stranieri per costruire alberghi», da quelli che chiama «muzungo», cioè bianchi. Hanno provato a difendersi legalmente, «ma il processo era ingiusto e per noi troppo costoso», anche protestare diventava molto pericoloso. Adesso non riescono più a pescare con i metodi tradizionali delle reti con le canoe a remi, quindi molti si sono dovuti trasformare loro malgrado in agricoltori o piccoli commercianti.

Jamail conosce alla perfezione il territorio, e quando arriviamo in auto a Kinondo nel villaggio di Gazi mi presenta Amina e gli altri membri della sua famiglia di piccoli ristoratori, che vivevano vendendo bibite alla gente di passaggio. Prima dell’indipendenza la comunità viveva su quella terra che, però non era registrata. Diventata suolo pubblico, il Governo l’aveva affittata a un’azienda agricola, con la promessa di ridarla indietro alla comunità. «Dovevano riaverla, ma adesso vogliono venderla a privati per costruirci hotel di lusso», mi racconta la donna anziana. Amina dice che sono disperati, non hanno più la terra, la loro casa è stata abbattuta insieme ad altre 760 in tutta questa zona, tremila famiglie si sono trovate da un momento all’altro per strada, vicino hanno costruito una capanna fatta con i giunchi e il tetto di paglia, ma i poliziotti li hanno avvertiti, torneranno a distruggere anche questa, devono andarsene. «Adesso non sappiamo più che fare, preghiamo, ci affidiamo a dio», dice avvilita. Purtroppo la giustizia, qui sulla Terra, a volte resta un’utopia.