I vertici militari chiedono più investimenti nella difesa ma la pace si costruisce anche su altre fondamenta
In uno degli scatti della sua prima conferenza stampa, Martin Pfister – vestito blu, camicia bianca – scende di slancio dalla torretta di un carro armato. Un’immagine che è quasi un simbolo della vigorosa azione e dell’urgenza che il neo consigliere federale si appresta a chiedere e a segnalare al Paese. Siamo a fine maggio, dieci giorni prima che al Consiglio nazionale venga discusso il messaggio sull’esercito, al quale una maggioranza della commissione preparatoria ha aggiunto un ulteriore miliardo per l’acquisto di munizioni per il sistema di difesa terra-aria. Ad opporsi, invece, è il campo rosso-verde, che non crede allo scenario di una guerra convenzionale terrestre. Un fronte del no che in Parlamento – la scorsa settimana – ha trovato il sostegno di chi non vuole compromettere l’equilibrio delle finanze. Dalla più grande piazza d’armi del Paese, Pfister ha però voluto lanciare un messaggio chiaro e un po’ inquietante. Tutti gli esperti, afferma, sono concordi: Mosca sta preparando una guerra su larga scala, una nuova guerra che potrebbe scoppiare entro la fine di questo decennio, quando la Russia avrà sviluppato le sue forze armate a tal punto da poter sostenere un’attacco contro l’Alleanza atlantica. Uno scenario che vede minacciati prima di tutto gli Stati sul fronte orientale della Nato, un fronte che con l’entrata della Finlandia nell’Alleanza (nell’aprile del 2023) si è allungato di altri mille trecento chilometri. Ed è proprio questa nuova linea d’attrito che nelle ultime settimane ha destato preoccupazione, dopo la pubblicazione da parte del «New York Times» di immagini satellitari che mostrano la riapertura di basi russe e il dispiegamento di mezzi e uomini.
Gli esperti citati dal consigliere federale basano le loro considerazioni su alcuni elementi, primo fra tutti l’aumento vertiginoso delle spese militari russe. Dal 2023 al 2024 queste sono cresciute di oltre il 30%, passando dal 5,4% al 7,1% del Prodotto interno lordo (Pil). Una riconversione economica del Paese segno della determinazione di Vladimir Putin nel portare a termine la restaurazione dell’impero russo, del suo ruolo di potenza globale, rimettendo al contempo in discussione l’ordine mondiale post-Unione sovietica. È in quest’ottica che, da quasi 20 anni, dal discorso del 2007 a Monaco di Baviera, Putin si oppone all’avanzamento ad est della Nato, che lui percepisce come una minaccia. Se sull’obiettivo geopolitico del Cremlino non ci sono molte discussioni fra gli osservatori, l’aumento del budget per la difesa alcuni lo ritengono invece insostenibile per la Russia, uno stimolo dunque a cercare la pace piuttosto che a impegolarsi in nuove guerre. Viviamo però in un tempo in cui ciò che fino a ieri era impensabile diventa realtà e così la comunità internazionale, per evitare brutte sorprese, preferisce prepararsi allo scenario peggiore. Svizzera compresa. Martin Pfister rispolvera un concetto che dalla fine della Guerra fredda non avevamo più sentito: deterrenza militare. «Per mantenere la pace, bisogna assolutamente prepararsi alla guerra», afferma il colonnello dell’esercito a «LeTemps». Una preparazione per la quale il Parlamento ha deciso di dedicare l’1% del Pil entro il 2032. A titolo di paragone, sul finire della guerra fredda (1990) alla difesa era attribuito l’1,35% del Pil, equivalente al 16% dell’insieme delle uscite della Confederazione. Due anni fa eravamo scesi allo 0,74% ossia al 6,6% del budget.
I Paesi attorno a noi procedono a passo decisamente più spedito. La Germania ha rotto un tabù e ha deciso di togliere dal freno all’indebitamento le spese militari. I leader dei Paesi Nato potrebbero dire di sì all’obiettivo del 5% del Pil per la difesa (anche se c’è chi afferma che non è la quantità di risorse messe a disposizione il vero scoglio, ma piuttosto l’assenza di coordinazione tra Stati). Una scelta sulla quale pesa la pressione degli Stati Uniti, che dopo la rielezione di Donald Trump sono tornati a minacciare di uscire dall’Alleanza e di abbandonare il vecchio Continente al suo destino. Una questione centrale anche per la Svizzera. Come Paese al centro dell’Europa beneficiamo dell’ombrello protettivo della Nato dalla sua fondazione, ma appunto anche su questo fronte tutto sta cambiando rapidamente. «Dobbiamo riconoscere che non è più certo per quanto tempo la Nato sarà in grado di svolgere il suo ruolo attuale», ha affermato Pfister in un’intervista al gruppo CH-Media. Ancora più cupe le affermazioni del vicecapo dell’armamento Thomas Rothacher alla «NZZ». Secondo lui i nostri partner europei non hanno più fiducia in noi e confrontati alle stesse minacce ognuno pensa a sé e ai propri alleati, quelli che possono sostenerti militarmente in caso di attacco. Una logica questa nella quale la neutrale Svizzera non può che essere perdente. Rothacher conclude: «Non credo che ci aiuterebbero in caso di emergenza». Ecco spiegate le ragioni per le quali i vertici militari ritengono che la Svizzera debba essere indipendente in materie di difesa (investendo per ammodernare i suoi armamenti), ma non isolata. Ecco spiegato perché oltre ai soldi si insista sulla necessità di intensificare le collaborazioni con i vicini (come fatto recentemente in Austria coi mezzi blindati o in Italia con i jet). Bisogna approfondire le relazioni, le conoscenze e superare le diffidenze.
La pace si costruisce però anche su altre fondamenta. Lo dice bene il Dipartimento degli affari esteri nella sua pagina internet dedicata alla politica di sicurezza: in gioco entrano la difesa dello stato di diritto, la promozione del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, la promozione della democrazia. E, aggiungiamo noi, la cooperazione internazionale negli ambiti della lotta alla povertà e della mitigazione dei cambiamenti climatici. Qui il nostro Paese vanta competenze e tradizione, qui può apportare il suo contributo alla definizione della nuova architettura di sicurezza europea e non solo. È in questi ambiti che la nostra neutralità acquisisce tutto il suo valore, che non si trasforma in indifferenza, che può essere un utile strumento anche per i nostri partner, che oggi fanno più fatica ad accettarla. Per avere sicurezza e pace, un balzo vigoroso in avanti (e non solo giù dalla torretta di un tank) lo deve compiere tutt’assieme la politica federale.