Eravamo tutti americani

by Claudia

Ogni generazione si porta nel cuore una sua America. Nell’Ottocento i nostri avi che si imbarcavano alla volta di New York sognavano la California (la volevano raggiungere ad ogni costo, fosse pure «a caval di una piattola», come ricorda Plinio Martini nel Fondo del sacco). In seguito, ridottisi i flussi migratori, l’America, ovvero gli Stati Uniti, iniziarono a popolare l’immaginario collettivo, gli scenari della politica e della riflessione intellettuale, e poi la rigogliosa produzione culturale, dal cinema alla musica passando per la letteratura. L’apparizione presso Bompiani, nel 1941, dell’antologia Americana curata da Elio Vittorini fu accolta dai lettori come una rivelazione e una liberazione dalla cappa del fascismo, regime che considerava il nuovo Continente un territorio senza passato, privo di valori spirituali, fondato sul numero e sulla catena di montaggio. Espressioni come «new Deal», «piano Marshall», «nuova frontiera» ispirarono metodi, progetti di governo e ideali a cui tendere. All’indomani della grande depressione del 1929, il «nuovo patto» voluto da Franklin D. Roosevelt permise all’economia americana di rialzarsi senza imboccare vie autoritarie e liberticide, come avvenne invece in molti Stati europei. Al termine della Seconda guerra mondiale, gli Usa vararono un grandioso programma di aiuti economici per rimettere in piedi le disastrate economie del vecchio Continente. Negli anni Sessanta – e qui i ricordi si fanno più nitidi per i nati nel secondo dopoguerra – le speranze dei giovani europei si accesero intorno alla figura e alle proposte di John Fitzgerald Kennedy, il presidente della «new frontier»: «… la nuova frontiera di cui vi sto parlando – disse nel suo discorso del 1960 alla Convention democratica – non è una serie di promesse, bensì una serie di sfide. E si concreta non in quello che io intendo offrire al popolo americano; ma in quello che io intendo chiedergli».

Anche il movimento per i diritti civili e per l’abolizione della segregazione razziale permise ai giovani, e soprattutto agli studenti dei campus, di occupare il recinto della politica come interlocutori consapevoli della loro forza e non più come una platea inerte. La guerra in Vietnam, con l’impiego su larga scala del napalm e dei defoglianti, scatenò una protesta che ben presto varcò l’Atlantico. Sull’onda delle mobilitazioni della nuova sinistra («new left») gli attivisti scoprirono le opere di Herbert Marcuse (Einaudi fece tradurre L’uomo a una dimensione già nel 1967). Anche i liberali progressisti ebbero i loro idoli in personaggi come John Kenneth Galbraith (1908-2006), economista di origine canadese le cui opere maggiori ebbero un’ampia diffusione anche in lingua italiana per merito della Mondadori. È poi sopraggiunta, negli ultimi decenni del secolo scorso, la rivoluzione informatica, trainata dalle invenzioni di due geniali imprenditori californiani, Steve Jobs e Bill Gates, entrambi nati nel 1955. Soprattutto il primo, scomparso prematuramente nel 2011, ha alimentato un filone tecnologico la cui matrice affondava le sue radici nella contro-cultura hippie degli anni Sessanta e Settanta. Il suo motto «Stay hungry. Stay foolish» (siate affamati, siate folli) è stato elevato a manifesto della nuova era del silicio governata dalla «computer science», regno delle infinite possibilità. Questa America progressista e per molti aspetti libertaria ha avuto i suoi estimatori anche nella Svizzera italiana. Il collega Giò Rezzonico considera i Kennedy (John e il fratello Robert) figure fondamentali nel suo percorso biografico-politico; il linguista Alessio Petralli, ora direttore della Fondazione Möbius, fu tra i primi in Ticino a sottolineare l’originalità dei prodotti Apple e le potenzialità di Internet; il professor Marcello Ostinelli, oggi presidente del circolo Orizzonti filosofici, ha sempre attribuito grande importanza alle riflessioni di autori «liberal» come John Rawls e Michael Walzer. Con l’ascesa delle tecno-oligarchie al potere tutto questo si è appannato. Alla giustificata infatuazione per le promesse del nuovo mondo è subentrata la delusione per come le maggiori aziende hi-tech si sono gettate ai piedi del miliardario Trump. La speranza è che lo smarrimento sia solo passeggero e non una permanente sottomissione al potere.