Ferite, rimedi, decessi e memoria storica

by Claudia

Ci sono ferite che difficilmente si rimarginano. Ogni comunità si porta appresso un dolore, individuale e collettivo, che la accompagnerà a lungo. Forse per sempre. Il ciclismo svizzero sarà chiamato a fare i conti con due drammi del recente passato. La morte di Gino Mäder, al Tour de Suisse del 2023, e quella della diciottenne juniores Muriel Furrer, ai Campionati Mondiali di Zurigo dello scorso anno. Due dinamiche diverse con lo stesso tristissimo esito. Che cosa sia accaduto al talentuoso campioncino di Flawil (SG), molto probabilmente non lo sapremo mai. Non ci sono immagini. Non ci sono testimoni. Stava scendendo a velocità, forse sostenuta, dal passo dell’Albula. Era staccato dai primi. Dalla dinamica della corsa si presumeva che non avesse nessun interesse a forzare i tempi per rientrare sulla testa. È bastato un attimo di calo della concentrazione? Un sasso, un rametto che il corridore, rilassato, non è riuscito ad evitare? Chi lo saprà mai?

La tesi maggiormente accreditata è la prima, quella della banale distrazione, come era capitato al Giro d’Italia del 2011 al belga Wouter Weylandt. Ma in quella circostanza c’erano immagini e testimoni. Uno sciagurato sguardo a ritroso, a pochi metri dal restringimento della carreggiata. E l’impatto con un muro sporgente che diventa fatale. Una storia che ha seminato sgomento e tristezza, ma che non poteva suscitare polemiche, recriminazioni, o richiamare alla responsabilità di terzi.

Diversa la vicenda di Muriel Furrer. Lei pure era sola, staccata dalla testa della corsa. Lei pure non era seguita da una telecamera. Ma il contesto era diverso rispetto a quello di Gino Mäder. La giovane, pedalava su un circuito di 27 km. Ogni passaggio critico avrebbe potuto essere monitorato da un pattugliatore. Così non è stato. Muriel ha fatto un dritto in curva, è stata catapultata fuori strada e ha concluso contro un albero la sua corsa, e la sua breve esistenza. Ci si è accorti della sua assenza dopo circa un’ora. Troppo tardi. Sarebbe bastato capire subito dove si trovava per tentare di salvarle la vita.

Gino, Muriel. Due drammi. Due ferite insanabili per i loro cari. Due pugni allo stomaco per il mondo del ciclismo e dello sport.

Per evitare che una tale situazione si ripeta, gli organizzatori del Tour de Suisse attualmente in corso, che sono anche i responsabili del Mondiale incriminato, hanno deciso di dotare ogni ciclista e ogni veicolo in corsa di un sistema satellitare di localizzazione. Sembra poca cosa, ma sarebbe stato sufficiente per intervenire con immediatezza sul trauma cranico di Muriel. La tecnologia al servizio della sicurezza, quindi. Proprio come è accaduto alcuni anni fa con l’introduzione delle radioline ricetrasmittenti, le cosiddette «oreillettes». Qualche appassionato «purista», che vorrebbe vedere i corridori nell’arena come dei moderni gladiatori, continua a storcere il naso. Le informazioni tra ammiraglie e gruppo, secondo loro, limiterebbero lo spettacolo. I fuochi d’artificio che sta proponendo la nuova generazione di campioni smentisce fragorosamente questo assunto. In compenso, le radioline consentono di sapere con largo anticipo dove ci sono ostacoli, manto stradale bagnato o oleoso, cadute, spartitraffico e tutto quanto possa mettere in pericolo l’incolumità dei protagonisti.

Statisticamente, se pensiamo alle migliaia di cadute sull’arco di un’intera stagione, a volte spettacolari, parlare di decessi che si contano sulle dita di una mano, sembrerebbe irrilevante. In realtà, fosse anche solo uno, sarebbe uno di troppo. I corridori sono consapevoli che il rischio zero rimarrà un’utopia. Limare, per tenere o conquistare posizioni in un gruppo di 150 ciclisti che corrono gomito a gomito, comporta e comporterà sempre dei rischi. Così come scendere a 100 all’ora su una strada stretta e magari bagnata su un copertoncino di 2 o 3 centimetri.

La tecnologia può rasserenare. Così come l’impegno degli organizzatori di corse nel disegnare tracciati sicuri. Asfaltare i tratti dissestati è diventato un «must», purché l’operazione avvenga molto prima del passaggio della corsa. L’asfalto nuovo rilascia infatti una patina oleosa che, mescolata con la pioggia, renderebbe il manto stradale scorrevole come il Lauberhorn o la Streif. Dal canto loro i corridori sono chiamati, ma loro lo sanno, a mantenere costantemente altissimo il livello di concentrazione. Le storie dolorose di Gino e Muriel, e di tutti gli altri che hanno pagato il pesante pegno, devono quanto meno servire da monito.