Il dolore di chi sta dalla parte dei «cattivi»

Ultimamente penso spesso all’ambiente sociale e affettivo dei cosiddetti «cattivi». Scrivo «cattivi» non in senso morale, ma in termini di immagine. Negli scenari di guerra, per esempio, «cattivi» sono gli aggressori, anche quelli che individualmente cattivi non sono. «Buoni», gli aggrediti, anche quelli che individualmente buoni non sono. Bontà e cattiveria, in questa lettura dei fatti, dipendono solo dalla parte in cui ti trovi, non dalle virtù o dai vizi personali. Ma è una semplificazione che dovremmo abbandonare per non cadere in stupide condanne di massa, un meccanismo perverso perché attribuisce a un intero corpo sociale le colpe di una sua piccola parte.

Le colpe, invece, vanno sempre imputate a precisi individui dotati di un nome e un cognome: Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu o Yahya Sinwar, per esempio. E vanno estese agli esatti nomi e cognomi dei co-decisori e degli esecutori che li hanno accompagnati, ispirati, sostenuti e hanno prestato i loro servigi alla realizzazione del piano scellerato.

Non esistono popoli collettivamente cattivi. Sostenerlo recherebbe torto ai sudditi di quei regimi che hanno orrore dei massacri ordinati dai propri capi a Kyiv, a Kharkiv, a Gaza o in Israele. Significherebbe ignorare i coraggiosi che pagano il dissenso rimettendoci la pelle, e le persone normali rivoltate che tacciono per istinto di sopravvivenza, come del resto farebbero molti di noi. Sono sfumature necessarie per non perdere la speranza di un sussulto «dall’interno», di un sotterraneo rovesciamento di fronte che potrebbe, un giorno, cambiare il piano inclinato della storia. Tifiamo, insomma, per i «buoni» dei «cattivi» che sono sicuramente la maggioranza.

Allo stesso modo, anche se il tema è complessivamente diverso, rifletto sui parenti stretti e sugli amici intimi di quanti commettono reati mostruosi, o per meglio dire, socialmente ripugnanti. Penso al ragazzo ventunenne austriaco che si è reso colpevole della strage scolastica a Graz nei giorni scorsi o ai maschi tossici che si macchiano di femminicidio. Accordiamo, come è giusto, la nostra immediata solidarietà alle loro vittime e alle famiglie che in un giorno troppo assurdo per poter essere mai metabolizzato, le hanno viste sparire nel terrore e nel nulla. Probabilmente non c’è ferita più grande.

Eppure, è altrettanto vertiginoso immaginare il dolore nascosto delle famiglie dei colpevoli più impresentabili e dei loro sodali; di quanti cioè li hanno amorevolmente cresciuti e ostinatamente amati, a volte senza accorgersi della brutalità che gli montava dentro. Nel nascondimento e nel silenzio continueranno ad amarli contro tutto e contro tutti? Quelli sono pur sempre carne della loro carne, sconcertanti frutti del loro stesso albero: impossibile disconoscerli.

Così come è pacchiano attribuire le colpe dei capi a tutti i loro sudditi (tranne, forse, quella di averli eletti), di fronte a queste tragedie è fuorviante attribuire ai padri e alle madri le colpe dei figli. Esistono molte famiglie sbandate con figli irreprensibili e molte famiglie irreprensibili con figli sbandati. Dicono che la mamma di Hitler fosse dolcissima. Ogni destino si gioca sul filo di imperscrutabili scelte interiori, e, a volte, della follia. Perciò le lacrime delle persone visceralmente legate agli autori di atrocità sono amarissime: distillano vergogna per l’alone oscuro che partendo dal congiunto imbratta anche loro, smarrimento per l’immagine per sempre compromessa del proprio caro, e di se stessi come nido (colpevole? incolpevole?) che l’ha generato, odio per lui che è diventato scandalosamente «altro» da loro e da se stesso. E comunque amore, testardo amore, per quel figlio che sempre figlio rimane anche se, chissà perché, un giorno ha impugnato il fucile e ha fatto quello che ha fatto.

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