Pochi sanno che uno dei primi giardini all’inglese in Italia si trova in pieno centro a Milano. Anche perché ha la particolarità di un divieto di accesso ai maggiori di dodici anni non accompagnati da bambini sotto i dodici anni. E così, se uno non vuole rinunciare alle sue impressioni da passeggiatore solitario stile Rousseau né aspettare una delle rare visite guidate, il giardino acquisisce un vago senso del proibito. A fianco della Galleria d’Arte Moderna, ex Villa Belgiojoso-Bonaparte (nome aggiunto dopo la parentesi napoleonica) nota anche come Villa Reale, in una tregua temporalesca di primo pomeriggio verso fine primavera, da via Palestro m’infilo in un vialetto discosto. In pochi passi mi si apre davanti un parco-paesaggio che non avrei mai immaginato così arcadico. In un colpo d’occhio abbraccio manto chiaro dell’erba, contrasto con chiome cupe, un cenno di laghetto, statua misteriosa in lontananza, consapevolezza di follie architettoniche celate, vaghezza.
Nessuno mi dice niente ma non c’è neanche nessuno in giro, il cielo minaccia un altro temporale. Progettato, come la villa maestosa, nel 1790 da Leopoldo Pollack (1751-1806) – architetto nato a Vienna e trapiantato presto a Milano dove diviene insegnante di prospettiva a Brera – per il conte Ludovico Barbiano di Belgiojoso (1728-1801), generale maggiore e palchettista alla Scala, è un parco-dipinto. La sua veduta d’insieme appare, in una incisione su rame dove si contano sette coppiette a passeggio e una di cigni nel laghetto, a pagina centoventicinque Dell’arte dei giardini inglesi (1801). Straordinario trattato di Ercole Silva, precursore dei giardini all’inglese italiani che sembra avere un ruolo in questo posto però taciuto dallo stesso, nel suo libro, e attribuito tutto «all’intelligentissimo proprietario» e al «valente architetto».
Trovo un Nettuno tra le ortensie. In pietra ammantata di muschio, calpesta un mostro marino stile pescegatto. In un lampo però il mio sguardo è rapito dallo sguardo folle e disperato di un’altra statua, con le mani a coppa portate alla bocca per bere. Trilogia-fontana di Adolfo Wildt intitolata Il Santo, il giovane, la saggezza (1912) talmente incredibile, prigioniera dietro il vetro di una edicoletta, che devo tornare a raccontarvela come si deve. Soltanto un ultimo accenno, girandomi a incontrare ancora gli occhi scavati di quei tre corpi mortuari in marmo modellati di notte, per anni, a lume di candela, dietro il vetro che riflette le chiome degli alberi e come una miniatura, il palazzo neoclassico con sculture sul tetto come una corona. Da qui, dove svetta un platano monumentale e alle sue spalle il grattacielo anni cinquanta del Centro Svizzero, sono folgorato dal tempietto di Cupido, tra le fronde, sull’isoletta. Scorcio iper-romantico che mi porta altrove. Incamminandomi per raggiungerlo, noto tartarughe nuotare, e laggiù in fondo, la torre del conte Ugolino. Vado matto per queste follie da giardino inglese. La torre merlata in cotto diroccata in partenza, è una nuova rovina legata alla tragica fine del conte pisano cantata da Dante. Da queste parti, come risulta nella legenda della planimetria acquarellata da Pollack, c’era anche una tenda militare detta Tenda Greca nel trattato di Silva dove, in un’illustrazione-acquaforte, mostra le crepe nella muratura e mi ricorda la tenda tartara del Désert du Retz, storico parco anglo-cinese fuori Parigi. Non ne vedo traccia, a prima vista.
Supero il ponte rustico e sono sull’isoletta di Cupido come la chiama Otto Cima in Fra il verde dei giardini milanesi (1925). Otto colonne di granito con capitelli corinzi caserecci, in stucco, sorreggono la cupola del tempietto monoptero dove mi riparo per lo scoppio improvviso del temporale. Sulla stele al centro non c’è niente e sul dorso è cesellata una ghirlanda. «Una semplice ghirlanda di fiori basterà»: mi riaffiorano alla mente le parole di Ercole Silva, consulente occulto del luogo. Più il monumento è semplice meno distrae la vista. Lo sguardo va a caccia del sarcofago di Petrarca. Altra follia d’ispirazione letteraria, ed eccolo là. Da vicino, si legge, scolpito, il nome Laura. Dovrei cercare ancora il tempietto delle Parche, rarità botaniche come l’albero di Sant’Andrea o Diospyros lotus, però viene giù che Dio la manda. Al riparo del tempietto di Cupido mi dedico a repertoriare tutti gli scarabocchi d’amore.